Amore, troppo amore

di Licia Coppo, pedagogista, counsellor e formatrice Kaloi

Che cosa c’entra la parola AMORE con il rapporto con i figli e la loro educazione? E’ un altro tipo di amore quello di cui parleremo oggi, no? Non sarà certo l’amore della coppia, quello che si celebra a San Valentino! In effetti così dovrebbe essere, ma non sempre è.

family_tiesIl rischio che qualche genitore, il 14 febbraio, porti a casa un mazzo di roselline al figlio e non al partner c’è. Anzi, ormai è cronaca quotidiana. Parola di fioristi!

Viviamo nell’epoca dei “GENITORI INNAMORATI DEI FIGLI”. Lo testimoniano gli innumerevoli post su facebook, con tanto di album fotografico di ogni momento della vita del figlio, colmi di cuori e di emoticon con gli occhi languidi. Lo testimoniano le maestre, soprattutto quelle della scuola dell’infanzia, che sempre più spesso devono gestire acrobatici colloqui con genitori che non possono sopportare che il loro bambino sia stato sgridato, magari si sia preso una spinta da un compagno di scuola, che quindi abbia pianto. Come se la sofferenza, minima e inevitabile in un percorso di crescita, fosse la loro. E diventa inaccettabile vedere il figlio ‘stare male’, proprio come avviene nel rapporto di coppia, in cui la sofferenza dell’altro è intollerabile. Perlomeno nella fase dell’innamoramento. Poi, come sappiamo, la coppia evolve e subentrano le routine; a volte, negli anni, l’altro diventa al contrario motivo di insofferenza. Incredibile dictu!

Ebbene, accade anche con i figli: dopo anni di OVERDOSE AFFETTIVA verso gli adorati frutti del nostro grembo, immortalati in milioni di click, riempiti di baci e coccole, ci svegliamo una mattina e scopriamo che quel figlio tanto amato è diventato una serpe, un tiranno incappucciato in felpe oversize, silenzioso consumatore di beni materiali e di energie relazionali, incapace di un minimo di riconoscimento per tutto l’amore e le opportunità ricevute. Ops! Cosa è accaduto? Forse lo abbiamo amato “troppo”; o di un amore non materno e paterno.

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Caroline Thompson, nel suo interessante libro “Genitori che amano troppo – e figli che non riescono a crescere”, conduce proprio alcune riflessioni in questa direzione: “si è verificata un’inversione di ruoli per cui non sono più i genitori a guidare i figli, ma sono i figli a dover sostenere i genitori smarriti, vittime di angoscia di separazione. E più i genitori sono angosciati, più i figli sono sommersi dal senso di colpa e oscillano tra sottomissione e ribellione, senza riuscire a trovare la via dell’indipendenza. Il figlio è sovrano, ma è un sovrano prigioniero del suo regno”.

Come ripartire allora nella GIUSTA DIREZIONE? L’amore ha varie forme, alcuni funzionali nel rapporto genitori-figli, altre certamente malsane. Sulla Treccani, cercando la definizione di “Amore”, alla prima riga troviamo: “Sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercane la compagnia”. Interessante. Purché – parlando di figli – la compagnia abbia il limite dei 30 anni! Magari 25, che sarebbe più opportuno. E purché le mie AZIONI di genitore siano CENTRATE SUL BENE DEL FIGLIO.

11011202_10206479935026140_1020168195634090010_nQui c’è la chiave di volta; concedetemi allora un gioco di parole: fare il suo bene è diverso da volergli bene. Voler bene è importante, certo! E normalmente ci viene facile. Quando “ci si vuole bene” c’è una reciprocità in quell’affetto che fa star bene anche noi adulti. Fa stare ‘al caldo’. Chi, come me, ha figli già più grandini, ricorda con nostalgia il piacere di un abbraccio con il proprio cucciolo di 2 o 3 anni. O i dolci disegni portati a casa per la festa della mamma a 4 o 5 anni! Fare il bene del figlio è assai più complesso, a volte sembra dissonante con l’idea di amore. Ma è amore anche questo, anzi è la FORMA DI AMORE PIU’ DIFFICILE: quella che lavora per PROMUOVERE LE AUTONOMIE in un figlio, per esempio. Insistendo perché lui si vesta da solo, si lavi da solo, dorma da solo, studi da solo.

Quella che NON E’ MORBOSA, che accetta che vi sia una fase della vita dove gli amici sono tutto e tu genitore non conti più niente. E gli abbracci sono vietati. Per cui bisogna accontentarsi di fare una carezza col pensiero.

Quella che sa LASCIAR ANDARE, quando il figlio sedicenne vuole fare un’esperienza di studio all’estero.

Quella che può anche DIRE DI NO alla richiesta del figlio di 13 anni di andare a una festa che finisce tardi, pur sapendo che il figlio soffrirà per quel divieto, per quella limitazione della sua libertà; perché è ancora troppo giovane per poterla gestire. E quindi AMARE E’ ANCHE LIMITARE. Ricordandoci che noi siamo la guida, coloro che sanno quale sia il bene dei figli; proprio perché li amiamo, non lasciamo sempre a loro il potere di scegliere e di decidere.

9788804589563-genitori-che-amano-troppo_copertina_piatta_foSottolinea ancora la Thompson: “ci facciamo vanto di trattarli come pari, e non ci accorgiamo che così non gli consentiamo di vivere la loro infanzia e non assolviamo al nostro compito di genitori, che si fonda sulla differenza e non sull’affinità. Non ci accorgiamo che amare troppo i figli significa anche esporli alla nostra delusione, perché non sempre riusciranno a essere all’altezza delle nostre attese. Significa pretendere che essi ci amino a loro volta. Significa privarli della libertà impedendo loro di emanciparsi”.

In conclusione, giusto per evitare equivoci, l’invito non è a non amare i figli. Ma ad AMARLI NEL MODO GIUSTO. Di quell’amore genitoriale che non vincola, ma mette le ali. Non lega a sé, ma invita a correre lontano per conoscere il mondo. Perché i figli abbiano gli strumenti per volare alto, fuori dal nido familiare. Sicuri e forti, quando faranno le loro esperienze, perché avranno sperimentato l’amore vero, l’amore utile. E ne conserveranno una sana nostalgia, che sarà la spinta per donarlo ad altri.

Articolo pubblicato a febbraio 2015 sul Corriere della Valle, giornale locale valdostano, nella rubrica PAROLE PER EDUCARE, curata dalla nostra formatrice Kaloi Licia Coppo

Alleanza educativa Scuola/Famiglia: è possibile?

di Manuela Zorzi, psicologa, counsellor e formatrice Kaloi

Scuola_famigliaNel corso di quest’anno ho avuto l’opportunità di conoscere più da vicino una scuola dell’infanzia (in cui ho lavorato per la prima volta da insegnante), e un bellissimo gruppo di docenti di scuola dell’infanzia e primaria grazie al progetto “Alleanza educativa tra scuola e famiglia”, che sono stata invitata a condurre.

In entrambi i casi il tema dell’alleanza educativa ha stimolato in me e nei miei colleghi numerose riflessioni, che desidero condividere con chi come me si occupa di educazione ma anche di benessere e salute della persona e della comunità.

La scuola in cui ho condotto il progetto per insegnanti e genitori di scuola dell’infanzia e primaria mi ha contattata perché ha sentito l’esigenza di migliorare la comunicazione e la relazione con le famiglie in seguito ad episodi di lamentela e sfiducia, espressi anche con aggressività verbale, ai danni di alcuni insegnanti e della direzione, che hanno profondamente amareggiato chi li ha subiti ed hanno fatto pensare ad una messa in discussione del ruolo dell’insegnante e dell’istituzione scolastica in generale.

A partire da un’esperienza emotiva connotata da sconforto e senso di impotenza, quindi, la scuola si è interrogata su come recuperare in modo positivo e proficuo una relazione con le famiglie, che in parte era compromessa, in parte tuttavia rimaneva saldamente ancorata al reciproco interesse per il bene del bambino.

Abbiamo deciso di cambiare prospettiva, di uscire dalla discussione attorno agli episodi spiacevoli, alle colpe o alle assoluzioni, ai protagonisti “buoni” e “cattivi”, e di tornare a porre al centro dell’attenzione il bambino, con i suoi bisogni e le sue necessità. L’abbiamo fatto seguendo una logica non spontanea, evidentemente, ma necessaria e intenzionale: andare oltre i singoli bisogni individuali e rammentare che il bambino, oltre alle sue esigenze prettamente soggettive, necessita di soddisfare bisogni educativi importanti:

– quello di alleanza e collaborazione tra chi si occupa della sua crescita e del suo apprendimento;

– quello di ricevere validi esempi di sana socializzazione e di vedere da più parti riconosciuto il valore del gruppo e della comunità, nonché delle regole che li reggono.

Come ottenere concretamente tutto questo?

Il lavoro per gli insegnanti è iniziato dalla consapevolezza di ciò che sentivano messo in discussione e delle emozioni collegate.

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Da lì si è ripartiti per ricostruire una solida identità valoriale ed educativa in quanto gruppo in grado di condividere e confrontarsi sull’esperienza lavorativa e allo stesso tempo di vivere quei medesimi valori all’interno del gruppo docenti, trasferendoli in atteggiamenti positivi.

Un successivo passaggio è stato utile: mettersi nell’ottica di comprendere il genitore, per ridurre la distanza e l’atteggiamento difensivo attraverso l’ascolto empatico e la comprensione di quelle apprensioni e preoccupazioni spesso giudicate esagerate e controproducenti, ma rivelatrici allo stesso tempo di un disagio tipico dei nostri tempi.

Accanto a tutto questo, è stato necessario predisporre un altrettanto solida struttura di regole e sanzioni, ispirata al modello ideato da Roberto Gilardi nel suo libro Genitori in regola e diffuso in tutta Italia dai formatori Kaloi.

Se da un lato quest’esperienza bella e feconda come formatrice in una scuola paritaria mi ha dato slancio ed entusiasmo, il lavoro di insegnante di scuola dell’infanzia all’interno della scuola pubblica mi ha messo a contatto con emergenze educative importanti, e mi ha ulteriormente sollecitato rispetto al tema dell’alleanza educativa e della necessità di un cambiamento culturale profondo.

Andare oltre la teoria per farsi modello di alleanza educativa, di dialogo costruttivo e di interesse verso l’altro.

Credo che il punto di partenza per tutte le professioni che si occupano di educazione sia quello di farsi carico della diffusione di conoscenze pedagogiche fruibili e spendibili dai genitori, finalizzate a creare consapevolezza in merito al ruolo educativo e a fornire strumenti per la conoscenza del bambino e dei suoi bisogni reali (e non di quelli presunti, nati dalla confusione valoriale culturale e sociale di oggi!)

I genitori, che oggi appaiono spesso fragili, vanno aiutati a sentirsi forti e solidi attraverso la costruzione con loro e il figlio di un rapporto basato su stima e fiducia.

images-3-copiaÈ necessario lavorare per costruire competenze educative che rendano solide le identità genitoriali, un lavoro psicopedagogico complesso ma di cui il mondo istituzionale, in primis la scuola, deve farsi carico: è necessario un impegno specifico nell’aiutare i genitori ad essere preparati a questo compito imprescindibile nel corso dei primi anni di vita dei loro figli, al fine di tradurre l’amore in pensieri e azioni educative che crescano bambini e adolescenti sicuri e autonomi.

Sono fermamente convinta che il benessere dell’individuo, sia bambino sia adulto, e della collettività di cui fa parte sia principalmente influenzato dalla qualità del legame di attaccamento instaurato con lui nel corso del primo anno di vita legame che si costituisce la “base sicura” per dirla con Bowlby per la costruzione di una personalità solida e fiduciosa, aspetto dato a tal punto per scontato da essere drammaticamente trascurato.

Come scrive Vittorino Andreoli in “Lettera ad un adolescente” il nostro comportamento è sempre ispirato dalle emozioni che proviamo. Concordo e mi associo nel dire che educare richiede amore, non solo verso il proprio figlio ma verso il bene e la felicità di ogni essere umano: solo così è possibile abbattere le resistenze di ruolo.

Creare una nuova alleanza educativa tra scuola e famiglia è un obiettivo complesso, non sono sufficienti alcune buone intuizioni; occorre una concreta traduzione nella pratica educativa quotidiana di tutte quelle azioni volte a favorire il reale sviluppo armonico dei bambini, a partire dalla conoscenza del bambino e dalla capacità di adulti e istituzioni di riconoscerne realmente la centralità.

 

La prevenzione dei femminicidi: cosa deve sapere, saper fare e saper dire un genitore?

A volte tematiche delicate come ‪#‎immigrazione‬, ‪#‎cyberbullismo‬, ‪#‎femminicidio‬ rischiano di diventare nutrimento per demagoghi o formatori improvvisati. Non è certo il caso di Alberto Pellai: “Cambiare un’attitudine culturale, ribaltare uno stereotipo di genere che contamina la cosa più bella della nostra vita (ovvero l’amore) con la cosa più brutta (ovvero la violenza e la morte) è compito e responsabilità di ciascuno di noi.”

La prevenzione dei femminicidi: cosa deve sapere, saper fare e saper dire un genitore?

Questo è un lungo messaggio rivolto alle mamme e ai papà. Ci vuole tempo per leggerlo. E per rifletterci su. Ma spero sia utile a noi genitori. E sia possibile leggerlo anche ai nostri figli, sia ragazzi che ragazze. Penso a questo messaggio da settimane, dopo aver letto le troppe storie di femminicidio che hanno riempito la cronaca nera. Penso davvero che, anche grazie alla mia professione, ai miei libri, alla mia pagina facebook, posso aiutare tutti, me compreso, a riflettere su questo tema. A confrontarsi tra generazioni. Perché le storie dei femminicidi sono tutte orribili, e tutte, purtroppo molto simili. Donne uccise da compagni che, nell’estremo tentativo di non farle andare via da una relazione, le rubano a qualsiasi altra relazione. Le rubano alla vita. C’è un problema enorme nel mondo dei maschi: è l’incapacità di trasformare le emozioni negative in parole che sanno chiedere aiuto, in gesti che rinunciano alla violenza. E’ l’incapacità di tollerare la frustrazione di sentirsi impotenti, all’interno di una comunità di maschi che ti chiede di essere sempre forte e virile. E’ l’incapacità di accettare che si può essere deboli, che ci si può sentire generinadeguati, che si può essere rifiutati. Come genitori abbiamo il dovere di insegnare ai nostri figli maschi a rispettare i “no” che si sentono dire, a comprendere qual è il confine tra negoziazione e prevaricazione, a lavorare sulla propria competenza, che spesso chiede di rinunciare alla dimensione della potenza. La virilità non è un attributo muscolare, non è un’azione violenta, non si afferma con un calcio, uno schiaffo, un pugno, uno spintone. La virilità che serve ai nostri figli è accettazione dei propri limiti, è la capacità di intuire ciò che in una relazione genera una sofferenza irrisolvibile. Tutti i dibattiti su questi temi sono frequentatissimi dalle donne. Ma penso che sarebbe ora che noi genitori accompagnassimo anche i nostri figli maschi a questo genere di incontri. Perché si rendano conto, perché sappiano cosa dire e cosa fare non solo quando sono coinvolti in una relazione di cui non riescono a “tenere le fila”, ma anche quando sentono che i loro amici, i loro colleghi maschi stanno perdendo la “bussola” che permette loro di rimanere orientati. Una delle notizie che ho trovato più sconvolgenti in queste settimane è quella relativa ad un femminicidio occorso circa un mese fa, quello di un uomo che – prima di uccidere la ex moglie – ha inviato decine di sms agli amici e alle persone che sentiva più vicine, scrivendo frasi come: “Deve morire e anche io devo morire. Non voglio andare in galera. L’aspetto in auto, l’accoltello alla gola e poi mi ammazzo”. L’uomo ha scritto numerosi SMS ad altri uomini ricevendone in risposta messaggi del tipo: “smettila di dire cazzate”, “lascia perdere”, “smetti di guardare su internet”, “non ti ucciderai, smetti di dire queste cose”.
Nessuno ha avvertito nelle frasi dell’uomo e nel suo delirio il rischio di vita per la sua ex moglie. Nessuno si è attivato per proteggerla, nessuno ha intuito l’importanza di aiutarla a mettersi in salvo. Penso che se questo genere di messaggi fosse stato scambiato tra donne, l’allarme sarebbe scattato immediatamente e forse la morte di due persone sarebbe stata prevenibile. Ecco, in questo fatto di cronaca nera così terribile, io vedo il silenzio educativo in cui sono lasciati moltissimi maschi. Per questo invito madri e padri a riempirlo questo silenzio educativo. Ad intervenire ogni volta che un figlio, fin da piccolo, usa la forza e le mani per risolvere un conflitto. A criticare ogni forma di violenza venga magnificata nei telefilm o nei videogiochi, di cui moltissimi ragazzi risultano “addicted” e all’interno dei quali le donne sono “bambole” del sesso da catturare e predare al fine di farci sesso, col semplice scopo di aumentare il proprio punteggio (vedi il popolarissimo Grand Theft Auto). C’è da fare. C’è molto da fare.
Parlo di tutto questo e di molto altro ancora nel mio libro “Bulli e pupe. Come i maschi possono cambiare. Come le ragazza possono cambiarli” (Feltrinelli ed.). Dedico un intero capitolo al tema del “rispetto del no” di chi ci sta di fronte. Un tema cruciale per noi maschi. Scrivo ai ragazzi e alle ragazze questo:
Feminicide__c__Eliana_Chauvet“Che cosa ci succede quando in Amore ci troviamo di fronte a una donna che ci dice no? Perché pensiamo che essere amati comporti che la donna al nostro fianco ci debba obbedienza assoluta? Nei femminicidi, il copione è quasi sempre lo stesso: un uomo che si sente dire “No” dalla propria compagna (o perché viene abbandonato, o perché viene tradito, o semplicemente perché è minacciato – all’interno di un conflitto – di essere lasciato) ricorre alla propria forza fisica e la aggredisce, fino a ucciderla, come estremo tentativo di ricondurla all’obbedienza. Perché un uomo non può accettare che una donna gli dica no.
Noi maschi dovremmo allenarci ad ascoltare e rispettare i no delle donne, delle ragazze e delle femmine con cui veniamo a contatto nel nostro percorso di vita. A partire dalle nostre mamme. Che a volte sono così stanche ed estenuate, che di fronte all’ennesima richiesta del loro figlioletto di fare questo o quello provano a dirgli: “Adesso basta, bambino mio. Non ce la faccio proprio più”. E quelle mamme che spesso si sentono in colpa perché provano per cinque minuti a non essere totalmente disponibili verso il loro piccolo cucciolo tiranno, dovrebbero invece sentire che lo stanno aiutando a imparare la fatica e la frustrazione di ascoltare un “no” che ha senso, un “no” col quale lui deve imparare ad empatizzare e sintonizzarsi. Perché più avanti, ci saranno i no di altre ragazze e donne che vorranno stare in relazione con lui, ma non vorranno adeguarsi al copione dell’obbedienza. Un copione che alle donne ha fatto molto male. E che spesso comincia con un “Non essere cattiva” detto ad una bambina che prova a rispondere no ad uno zio che vorrebbe un bacio mentre lei è intenta a leggere un libretto sul suo passeggino.
Noi maschi ne abbiamo davvero tanta di strada da fare in questo senso. E abbiamo bisogno di ragazze che ci aiutino a farla insieme a loro questa strada, che a volte ci sembra troppo complessa. O troppo in salita. Dovremmo imparare a discutere tra di noi, ragazzi e ragazze, ciò che una grande psicologa, Asha Phillips ha scritto a proposito del no, ovvero: “Un no non è necessariamente un rifiuto dell’altro o una prevaricazione, ma può invece dimostrare la fiducia nella sua forza e nelle sue capacità” e ancora “Dire no può essere estremamente liberatorio per entrambi i partner, perché incoraggia le differenze di idee e offre un’occasione di cambiamento”.
Cosa vuole dirci Asha Phillips? Secondo me una sola cosa: ovvero che alcuni no non significano disobbedienza, ma l’esatto contrario. Ovvero rispetto dell’altro. So che tu sei così intelligente da avere un sacro rispetto del mio no. Un no che non dico per offenderti o per rifiutarti, ma per far sì che tu, grazie al mio no, mi rispetti ancora di più. E nel tuo rispetto e col tuo rispetto, il mio no per te diventa un vero e proprio atto d’amore. Verso me stessa. E verso te che chiedi di amarmi.
6946504_1402187Mai pensato che questa frase potrebbe rappresentare la base per una grande storia d’amore? Mai creduto che la vera capacità di amare dipende dalla libertà che i due amati hanno di dirsi reciprocamente dei no?
Forse è da questi “no” pieni di rispetto che una ragazza può riconoscere chi tra noi maschi è un vero uomo. E anche un uomo vero. Nel senso più completo del termine”.

Se siete arrivati fino a qui e condividete il messaggio di questo post allora condividetelo con altri genitori, con altri adolescenti. Se siete docenti, stampatelo, mettetelo da parte e ricominciate il prossimo anno scolastico leggendolo insieme alle vostre classi. Cambiare un’attitudini culturale, ribaltare uno stereotipo di genere che contamina la cosa più bella della nostra vita (ovvero l’amore) con la cosa più brutta (ovvero la violenza e la morte) è compito e responsabilità di ciascuno di noi.

 

postato su Facebook, estratto del suo libro “Bulli e pupe. Come i maschi possono cambiare. Come le ragazze possono cambiarli”, Feltrinelli Ed., 2016

Sea Hero Quest: quando giocare con un videogioco diventa una “buona azione”

di Gregorio Ceccone, educatore e formatore Kaloi

Videogiochi e digital storytelling per il cambiamento sociale

Da alcuni anni, diversi videogiochi stanno avendo un forte peso su tematiche sociali, possibilità educative e, come in questo caso, ricerca scientifica. Il pionieristico progetto di cui vi parlerò in questo articolo sta costruendo il più grande database mai esistito sulla “memoria spaziale”, e aiutando la ricerca a capire come il nostro cervello “naviga” nello spazio. La nostra “buona azione” sarà semplicemente quella di giocare on-line a questo titolo, mentre i dati relativi ai nostri risultati e prestazioni verranno man mano inviati ad un database composto da informazioni fornite da milioni di altri utenti come noi.

Sea Hero Quest è un gioco gratuito per smartphone e tablet che racconta, a grandi linee, una vicenda che ha come protagonisti un padre e un figlio. L’antefatto riguarda le esplorazioni oceaniche che i due hanno fatto in passato, catalogando moltissime specie animali in un album da disegno e vivendo in pieno una vita in mare aperto. Gli anni passano ed il padre, ormai anziano, non ricorda più nulla: toccherà al figlio fargli riportare a galla i ricordi, rivivendo assieme quelle stesse emozioni. Tutto questo viene narrato in un breve video in computer grafica, ottimo esempio di storytelling emotivo, in grado di motivarci a scaricare l’applicazione e a contribuire, divertendoci, alla ricerca.

Il gioco fondamentalmente sfida l’utente su due aspetti: l’orientamento e la memoria. Gli utenti sono invitati a governare una barca attraverso un paesaggio artico o tropicale mentre in altre fasi del gioco vengono sfidati a sparare razzi e catturare immagini di creature lungo il percorso. Per passare ai livelli successivi è fondamentale ricordarsi i tragitti percorsi, le mappe o quanto visto durante le  “navigazioni”. Quindi per riuscire a superare i livelli sarà fondamentale sfruttare le nostre capacità di memoria spaziale e procedurale.  

Il videogioco, secondo gli sviluppatori della University College of London, University of East Anglia, Alzheimer’s Research UK e Glitchers, permette ai giocatori in appena due minuti di fornire l’equivalente di cinque ore di dati di ricerca di laboratorio.

Dati che saranno utilizzati per una tra le più importanti ricerche sulla demenza senile.

La demenza senile non è una malattia specifica, ma un termine usato per descrivere una vasta gamma di sintomi, come una diminuzione della capacità di memoria. Può anche includere perdita di attenzione, percezione visiva, ragionamento e giudizio.

Gli sviluppatori sostengono che i dati raccolti potrebbero “portare allo sviluppo di nuovi strumenti diagnostici e trattamenti per la demenza.” La perdita di capacità di navigazione è uno dei primi sintomi di demenza.

Dire che i risultati sono stati superiori alle aspettative sarebbe un eufemismo: quando l’app è arrivata sugli store a maggio del 2016, l’obiettivo era quello di raggiungere i 100.000 giocatori entro la fine dell’anno. La quota raggiunta è stata invece di 2,4 milioni: questo ha permesso di ottenere l’equivalente di 9.400 anni di ricerca in laboratorio in appena 6 mesi.

Questo è ad oggi l’unico studio del suo tipo, su questa scala“, spiega Hugo Spiers dello University College London, che ha presentato i risultati preliminari alla conferenza Neuroscience 2016 conference di San Diego. “La sua accuratezza supera di molto quella di tutte le precedenti ricerche in questo campo. I risultati che il gioco sta portando hanno un enorme potenziale nel supporto di sviluppi vitali nella ricerca sulla demenza”.

Sea Hero Quest è un ottimo esempio di come un prodotto valido e un racconto digitale efficace sappiano coinvolgere diversi tipi di pubblico. I risultati raggiunti finora non sarebbero sicuramente stati così corposi se all’interno di questo progetto non fossero state coinvolte delle figure molto capaci nel piano della comunicazione. Il progetto è un esempio virtuoso di digital storytelling transmediale e di social media marketing etico, strumenti fondamentali per la buona riuscita del progetto. I racconti digitali di questa tipologia sono da anni diffusi nel marketing tradizionale con risultati molto interessanti.

Suggerisco la visione del video introduttivo e del sito dedicato al gioco (http://www.seaheroquest.com/it/) per capire di cosa sto parlando.

 

 

Finalmente anche nel mondo del sociale, dell’educazione e della ricerca si sta sviluppando un sempre maggiore interesse verso forme di comunicazione che sappiano raggiungere sia la “testa” che la “pancia” del pubblico.

I bambini hanno bisogno di regole?

Echo-photoGentile Massimo, volevo condividere con te un momento di sconforto: nel corso pre-parto che sto seguendo è previsto anche un incontro con una psicologa per il rapporto madre-figlio. Ovviamente ha chiesto delle opinioni a chi, come me, aveva già bimbi a casa e quando ho espresso alcune idee del corso Genitori in Regola sono stata letteralmente attaccata e fatta passare per una madre non attenta ai bisogni del proprio figlio. Il concetto era che i capricci non esistono e che le regole non servono a nulla anzi! Che il bambino ha solo bisogni e che con le regole (figuriamoci le sanzioni…sembrava una parolaccia) noi lo mortifichiamo e ci disinteressiamo di lui… puoi immaginare il mio stato d’animo nell’esser così attaccata di fronte ad altre 20 persone. Comunque la riflessione che ne ho tratto, superato il disagio della situazione, è che essere una minoranza (anche educativa) è sempre scomodo e che le idee degli altri per quanto “urlate” non sono per forza le migliori o quelle con la verità in tasca. Ho quindi apprezzato ancora di più il tuo lavoro perché l’ho trovato non solo rispettoso degli altri e pacato ma soprattutto coraggiosamente svolto in un contesto culturale e lavorativo non favorevole. 

Grazie, Silvia

risponde Massimo Caccin, counsellor e formatore Kaloi

Prima reazione, a caldo: “Dimmi tu se una mamma in gravidanza deve essere trattata in questo modo!” Sì, perché sono convinto che quella che definiamo “Comunità Educante”, in tutte le sue articolazioni (compresi i corsi pre-parto), non dovrebbe giudicare ma essere di sostegno, di conferma e punto di riferimento per chi avrà il privilegio di accogliere, amare, educare e far crescere responsabilmente le generazioni future fin dai primi anni di vita. Fin dai primi vagiti. Ma non sempre succede. Fortunatamente, Silvia è una donna forte e strutturata, e l’episodio da lei descritto, pur spiacevole, non l’ha mandata completamente in tilt; però quello che è capitato a lei potrebbe capitare ad ognuno di noi, e in vari ambiti.

Dopo averle risposto in privato, continuo a riflettere. Emozioni e temi sollevati dalla sua mail sono molti e rilevanti. L’onda di repulsione provocata dalla “parolaccia” regole riflette la confusione, il disorientamento e il mal-orientamento nel mondo adulto.  Cercherò di mettere un po’ di ordine, sperando che le mie considerazioni possano servire a stimolare un pensiero che dilati l’orizzonte educativo piuttosto che restringerlo. Lungi da me la presunzione di spiegare tutto, non è possibile qui. L’argomento è troppo vasto.

Le Regole sono un argomento interessante ma “ostico”. Estremamente vicino alla vita delle persone: tutti vi siamo “immersi”, anche se non ne siamo consapevoli (un po’ come pesci nell’acqua). Le regole hanno a che fare con la nostra storia interiore, facile o difficile da raccontare, con ferite suturate o ancora aperte, con le esperienze vissute negli anni e la professione che svolgiamo.

Provate a chiedervi: “Quanto sono importanti per me le regole e il loro trasferimento ai figli per un’educazione sana e responsabile? Da 0 a 10, che importanza do a questo tema?” Io 11, forse.

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Se voi invece avete dei dubbi sulla necessità delle Regole e soprattutto su ciò che la mancata educazione alle regole comporta, andate a confrontarvi, serenamente e umilmente, sui comportamenti documentati dall’osservatorio quotidiano delle educatrici delle Scuole dell’Infanzia, degli insegnanti delle Scuole Primarie e Secondarie, di chi è deputato a mantenere l’Ordine Pubblico, o si sforza ogni giorno di far rispettare il Codice della Strada… avrete allora molti esempi delle conseguenze di una mancata trasmissione di regole sociali, dovuta a un fraintendimento: pensare che i figli (piccoli o grandi che siano) abbiano solo bisogni da soddisfare; anzi, che siano solo “agglomerati di bisogni”, e non serva loro, per crescere, anche una spina dorsale che li sostenga.

È un fraintendimento comune nella nostra società, in cui il “Codice Materno” ha sostituito il “Codice Paterno” nell’educazione dei figli. Mi spiego meglio: Codice Materno e Paterno non significano necessariamente “codice usato dalla mamma” e “codice usato dal papà”, indicano modi di essere. Modi di mettere in atto la relazione educativa, di amare i propri figli e operare perché diventino Cittadini del Mondo Autonomi, Responsabili e Agenti di Scelta per il bene di sé e degli altri. Le maiuscole non sono un errore ortografico.

family-webQuando uomini e donne educano i propri figli, scelgono di entrare in relazione con loro. Lo possono fare con l’ascolto, prestando attenzione alle emozioni, offrendo gesti di cura e protezione: chiamiamo questo Codice Materno, anche quando è il padre a utilizzarlo. A volte, invece, i genitori si centrano sull’azione. Si mettono in relazione con il figlio cercando di definire il problema, propongono un modello, incoraggiano l’autonomia, pongono limiti, regole e sostengono una direzione, nonostante il figlio batta i piedi. Chiamiamo questo Codice Paterno, anche quando è la madre ad attuarlo.

Ognuno di noi è naturalmente portato a relazionarsi prevalentemente con il Codice Materno o Paterno. Ma entrambi i Codici educativi hanno un valore essenziale, sono necessari. Entrambi contengono in sé una possibile deriva negativa, per eccesso o per difetto. L’assenza di cura e attenzioni è rischiosa quanto l’eccesso di cura e attenzioni. L’assenza di limiti, di autonomia, di direzione è rischiosa quanto un eccesso di regole, di prove di vita, di autonomie precoci, di costrizioni. L’educazione è questione di equilibrio, consapevolezza e scelta.

I Codici sono entrambi necessari, nella giusta misura e in misura diversa, a seconda dell’età del bambino: più è piccolo e più viene utilizzato il codice materno; ma quello che è opportuno con un neonato non lo è con un bambino di uno, cinque, dieci, quindici anni. L’utilizzo dei codici varia anche in base al numero dei figli: io ne ho tre. E non è la stessa cosa gestire una famiglia da tre persone o da cinque. Anche il numero ha il suo valore e il suo significato.

Ripeto: l’educazione è questione di equilibrio, consapevolezza e scelta.propositi-2012-equilibrio-152333_L

Basta guardasi intorno per capire che nella nostra società questo equilibrio è alquanto precario, ed è il Codice Materno ad aver preso il sopravvento: tornate alla mail di Silvia, quando scrive che “essere una minoranza (anche educativa) è sempre scomodo”.

Le Regole sono scomode per chi non le rispetta, per chi non accetta di mettersi sulla strada della riflessione, di un possibile cambiamento, perché comporta fatica.

E comporta fatica – la fatica educativa – anche quando le poniamo come genitori!

Anche Amare è “fatica”. Perché devi sempre chiederti cos’è il “bene” per l’altro e per te, e poi scegliere.

Scegliere anche di andare contro corrente.

Scegliere anche di creare una frustrazione a un figlio perché lui quel “bene” non ce l’ha ancora chiaro. Infatti gli adulti siamo noi, la “Comunità Educante” siamo noi.

L’Amore “accomodante” non risolve tutti i problemi della vita; l’Amore accondiscendente, sempre e comunque, fa danni. L’Amore è “pieno” quando è Responsabile. E permette all’altro di crescere.

Il rispetto è un profumo

di Claudio Cernesi, counsellor e formatore Kaloi, docente di Relazioni interculturali presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

Nel 1986 mi trovavo nella Casamance Senegalese, ai confini con la Guinea Bissau.

Allora era buona norma avvisare prima di arrivare in un villaggio guineiano. In caso contrario si era certi che i ragazzini, alla vista di un uomo bianco, avrebbero dato prova della loro abilità nel centrare un bersaglio con le fionde (abitudine acquisita al termine del colonialismo portoghese).

Un pomeriggio mi dimenticai di avvisare e dovetti girare la moto in fretta e furia e darmi ad una fuga precipitosa. La mira di quei ragazzi era veramente eccellente.

Il pregiudizio e lo stereotipo sono la via più semplice per farsi una prima idea dell’altro. Se l’altro è diverso, la risposta più ancestrale è la diffidenza. Esperienze negative (vere o percepite) trasformano la diffidenza in paura. Diffidenza e paura generano difesa, distanza, rifiuto fino al respingimento e all’allontanamento violento. La differenza diventa stigma, una condanna senza appello e senza distinzioni.

Il rischio di ogni risposta ancestrale è quello di sbagliarsi grossolanamente. Non ero portoghese ed ero lì per aiutare. L’immagine precostituita dell’altro può essere molto lontana dal vero ed essere controproducente.

Un modo per andare oltre il pregiudizio verso i bianchi e rendere possibile l’incontro era avvisare: un verbo che racchiude un processo. Per avvisare è necessario riflettere, progettare, programmare, tenere conto di sé e dell’altro, comunicare, negoziare, verificare il reciproco consenso, costruire una relazione di fiducia, preparare il risultato dell’incontro e della relazione.  Una buona sintesi dell’approccio interculturale.

Un’attività che proponevo nelle scuole elementari di Modena è quella del nuovo compagno di banco.

  • Domani arriva un nuovo alunno. Chi lo vuole vicino di banco?
  • Da dove arriva?
  • Dal Marocco (qualcuno dice sì)
  • Dall’Albania (quasi tutti dicono no)
  • Dagli Stati Uniti (tutti dicono sì)
  • Perché dite tutti sì allo statunitense?
  • Perché è come noi. Perché non è extracomunitario. Non ne abbiamo paura.
  • Capisco, intanto un chiarimento: extracomunitario vuol dire che non è della Comunità Economica Europea. Quindi anche uno statunitense è un extracomunitario. Ma parliamo della vostra paura…

Iniziavamo così a lavorare sui pregiudizi, riconoscendo innanzitutto la legittimità della paura. Un’emozione non è né buona né cattiva, semplicemente è. Si è formata in una storia, emerge dentro di noi. In quelle classi si respirava la presenza di una parola adulta che veniva ascoltata dai ragazzi perché anche la loro parola veniva ascoltata. Le porte dell’apprendimento si aprono dall’interno. Chi si sente accettato come persona, può aprirsi al dubbio verso le sue convinzioni, i suoi comportamenti. Chi non si sente accettato e percepisce una forzatura al cambiamento, alza gli scudi della resistenza. Per questo la via maestra dell’educazione è accogliere i ragazzi e le persone, avvicinando pensieri ed emozioni con un dialogo non giudicante. In questo modo è possibile costruire quel clima umano in cui può avvenire lo scambio delle reciproche differenze. Tommaso ha le orecchie a sventola, Mirko è basso, Adisa ha la pelle nera, Amhed parla una lingua strana, Carmelo ha un altro accento, il fratello di Tina è omosessuale, Kwame ha i capelli con un ciuffo, Daniele è un ragazzo down, Naila porta il velo, Mario non ha lo smartphone.

L’esperienza in centinaia di scuole mi ha fatto incontrare classi molto difficili e altre accoglienti, presenti, vivaci, curiose. Stessa provenienza sociale, analoga percentuale di differenze, stesso plesso, a volte stesso corridoio. Com’è possibile? La mia osservazione e diverse ricerche portano a dire che la differenza è generata dal modo in cui l’adulto costruisce la relazione, convergendo su due aspetti precisi: una relazione di fiducia e stima e la condivisione di un piano morale. Nelle classi che funzionano si avverte profumo di rispetto.

Il rispetto è un profumo: o lo senti o non c’è dice un proverbio dei Pulaar, nomadi del Sahel. Il rispetto e l’ascolto si apprendono nel rispetto e nell’ascolto. Attraverso questo è possibile condividere un quadro di regole che orienta il gruppo.  Una regola presidia un valore. L’interiorizzazione della regola porta a fare proprio il valore difeso, costruendo una morale di gruppo. Così come non derido Tommaso per le sue orecchie, non derido Adisa per il colore della sua pelle, Amhed perché parla una lingua strana, non derido Tina per l’omessualità del fratello. Fare educazione interculturale è lavorare sui pregiudizi (tutti) per ridurre lo stigma delle differenze (tutte).

Approccio alla persona, pedagogia partecipativa ed educazione interculturale sono un’unica danza per creare un nuovo modo di stare insieme nella scuola e nella società.

È nel fare insieme che le persone si avvicinano e si scoprono facendo cadere steccati e barriere, costituendo gli spazi comuni di una nuova cittadinanza.

 

Salva

La via semplice dell’incontro

di Claudio Cernesi, counsellor e formatore Kaloi

È aprile dello scorso anno, sto per iniziare un laboratorio di educazione interculturale in una quinta elementare in provincia di Ferrara.

Come sempre, mi chiedo chi ci sarà oltre quella porta. Come sempre, i bambini si chiedono chi entrerà da quella porta. La maestra mi accoglie e lascia che sia io a prendere contatto con la classe.  Non dico nulla per qualche minuto, semplicemente guardo e mi lascio guardare. È un inizio tranquillo, di occhi ed emozioni. Vedo visi curiosi, sento qualche risata, noto qualche sguardo timido e smarrito. Due bambine con la pelle un po’ scura sono vestite in modo molto colorato, mi scrutano attente. Un bambino di pelle nera tiene il mento appoggiato alle braccia incrociate sul banco. È John. I suoi occhi mi fissano intensamente. Lascio entrare in me quello sguardo, lascio entrare le domande. Domande aperte di occhi trasparenti.

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Narro la storia del mio avere casa in un villaggio africano, mostrando le immagini di quei mondi lontani da qua. La casa è stata costruita per me, per invitarmi a tornare, donata dagli abitanti del villaggio come segno e simbolo del legame che ci unisce in una amicizia profonda. Una capanna a cui penso con piacere, orgoglio, riconoscenza, affetto. La mia casa, là. Gli occhi di John mutano espressione. Giro tra i banchi per dare a tutti la mano, lui mi tende subito la sua. Ci sorridiamo, ci riconosciamo.

Termino le prime due ore e la maestra mi offre un caffè. È felicemente stupefatta. Mi dice che John è arrivato da appena due mesi e non aveva mai aperto bocca prima, rifiutandosi perfino di dire il suo nome. Aggiunge: – Oggi invece si è presentato,  ha commentato le diapositive,  è venuto da lei a offrirle un po’ della sua merenda con un sorriso grande così. Ho visto che avete parlato, cosa vi siete detti?

Le ho raccontato lo scambio semplice e naturale con John. Io ho chiesto a lui della sua famiglia, lui ha chiesto a me come mi sono trovato in Africa, cosa amo mangiare in Senegal, cosa mi piace fare.

Ho chiesto qual’è la lingua di sua madre e se poteva dirmi alcune parole, ho provato a ripeterle, abbiamo riso della mia difficoltà di pronuncia (lui mi correggeva pazientemente) e gli ho chiesto di salutarmi la sua famiglia.

Mam SiniUn incontro semplice, uno scambio semplice. Un’apertura resa possibile dal clima creato in classe, condizione perché il bambino si sentisse accettato e riconosciuto. I bambini hanno bisogno di sentirsi accolti, sia che siano di Ferrara o provengano dal Ghana. Solo così si aprono con fiducia. Per aprirsi all’altro occorre sentirsi sicuri, non temere di essere presi in giro, derisi, giudicati, svalutati, etichettati, collocati in categorie precostituite. Non è necessario essere andati in Africa per riuscire a fare questo. Ognuno di noi ha vissuto l’esperienza di doversi inserire in un ambiente nuovo, sentendosi diverso o un pesce fuor d’acqua: una festa in cui tutti si conoscono ma non si conosce nessuno, un nuovo ambiente di lavoro, il primo giorno in un villaggio vacanze ecc.  Ognuno di noi può accedere alla propria esperienza di straniero e di accoglienza. Come mi sono sentito? Come sono stato accolto? Cosa mi ha aiutato? Quali gesti? Quali parole?

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Sarebbe sufficiente rivivere la propria esperienza, riconoscerla, restituirla. Se mettiamo la nostra persona nei protocolli di accoglienza questi vivranno, palpitanti di calore umano. L’incontro avverrà. In caso contrario, i protocolli scolastici sono solo percorsi burocratici freddi, senza risultato. Tutti i bambini, tutte le persone sanno riconoscere il valore di un sorriso, di uno sguardo attento e non indagatore. Per creare una relazione collaborativa, noi adulti abbiamo bisogno dei bambini come loro di noi. Ogni bambino desidera aiutarci se ci sente vicini. Risolvere il problema dei bambini stranieri a scuola è risolvere il problema della relazione tra adulti e bambini. Da persona a persona.

Per saperne di più … www.teranga.it

E continuate a seguirci nei prossimi articoli sull’educazione interculturale…

Social Media e Terrorismo. Pensare o Pregare?

Angela Biancat, Social Media e Community Manager

Gregorio Ceccone, educatore e formatore Kaloi

 

Sentimenti forti non possono che pervadere il nostro cuore in queste ore di paura. L’Europa non è più abituata a subire tali devastazioni e l’intelligenza collettiva on-line esprime come può dolore, sbigottimento e solidarietà.

In questi giorni tutti ci sentiamo allagati emotivamente da un flusso di stimoli e impulsi differenti: informazioni, video, chiacchiere, che provano a descrivere un sentire comune, fatto di paura e dolore.

E’ molto difficile controllare le nostre “pance” e rimanere critici verso le nostre azioni. Tutto può essere scritto e detto di getto. Istintivamente.

In questo momento delicato conviene fermarci, respirare e capire cosa stiamo provando, facendo e accettando.

Tornare a pensare prima di agire.

Riflettere, prima di accettare suggerimenti e manipolazioni. Stare attenti ai dettagli, a piccoli cambiamenti che sembrano inezie di fronte al male della guerra. Piccoli cambiamenti che “ci piovono addosso” e quasi non si notano, tanto sembrano banali. Piccoli cambiamenti come le impostazioni della privacy di Facebook, che vengono aggiornate senza alcun preavviso.

 

La goccia scava la roccia

Il 14 novembre, il giorno dopo gli attentati di Parigi, Facebook ha operato due manovre che a nostro avviso non devono passare inosservate.
Sappiamo che da quando possediamo uno smartphone la nostra concezione di privacy è cambiata. Ma ci teniamo ad evidenziare una piccola grande sfumatura tecnica accaduta in queste ore.

Diversi  amici (reali) nella nostra rete di contatti vivono a Parigi: Catherine, Ornella, Alberto, Joanna. Catherine e Joanna hanno pubblicato quasi subito loro notizie: rassicuravano coloro che chiedevano dove fossero e come stessero, attraverso l’utile strumento del SafetyCheck. Ornella e Alberto, invece, per parecchie ore dopo gli attentati non rispondevano ai messaggi, non comunicavano né su Facebook né su altri social network… Stavano semplicemente dormendo nelle loro case.

Dall’Italia eravamo preoccupati, controllando l’elenco presente nella nuova funzione abbiamo notato un avviso accanto al loro nome: “non è nella zona degli attentati, sta bene”. A distanza di ore è arrivata la conferma del SafetyCheck, attivata di loro pugno: “E’ stato confermato che Alberto e Ornella stanno bene durante Attacchi Terroristici a Parigi”.

La prima informazione, cioè il fatto che non fossero nella zona degli attentati, era reperibile su Facebook all’insaputa degli interessati.

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Facebook evolve ogni giorno, con modifiche a livello di programmazione di cui non sempre veniamo messi al corrente. Questa piccola modifica, avvenuta in un momento di emergenza, ci fa accettare un’opzione senza aver avuto il tempo e le energie per riflettere sulle sue conseguenze.

Chi ha il permesso di condividere pubblicamente la mia posizione ad un intero network  composto da un miliardo e mezzo di persone, anche se a fin di bene? Qual è il limite da non valicare?

Ci torna alla mente quanto successo nell’aprile 2010, quando Facebook inserì un cambiamento nella gestione della privacy degli utenti: le persone non erano più in contatto con gli “amici” soltanto all’interno dello spazio di Facebook, ma anche su siti web e applicazioni esterne. Di conseguenza, i nostri dati personali relativi comparivano su questi spazi. Facebook propose una politica dell’opt-out invece che dell’opt-in: anziché garantire la scelta di aderire o no ad un servizio o ad una nuova regolamentazione, ci ha obbligato a toglierci da una o dall’altra opzione. Un lento ma inesorabile declino del rispetto della privacy, di cui la maggior parte degli utenti non verrà mai a sapere. Molti altri, pur venendone a conoscenza, sceglieranno di non far nulla per proteggerla.

Pray for world?

A meno di 12 ore dalla strage viene data la possibilità di “colorare” con il tricolore francese la propria foto profilo.

Pochi giorni prima dei fatti di Parigi, un attentato a Beirut, di cui si è parlato molto poco nei Social network. Ad agosto in Thailandia. Ad aprile in Kenya. Perché (quasi) nessuno di noi ha cambiato la propria immagine profilo con la bandiera di questi paesi? Perché Facebook non ha suggerito questo cambiamento?

2Secondo noi, perché siamo tutti tasselli che vanno a costituire l’immagine e l’identità del Social Network. L’identità di un brand viene decisa a tavolino da amministratori e investitori, che decidono il pensiero di chi fa parte di questo sistema? In buona parte sì.

Non sarà un aggiornamento di stato a cambiare il mondo se a questo non seguirà un’azione pensata fuori dallo schermo. La pressione di un milione di partecipanti al gruppo Facebook e di un milione di email inviate al Primo Ministro può essere contenuta facilmente dai governi.

Dobbiamo riflettere su quali siano i nostri valori, e soprattutto su quali vogliamo trasmettere alle persone che ci circondano. Tra queste, ricordiamoci che ci sono le nuove generazioni, che guardano a noi come modello educativo sia nella nostra vita off-line che in quella on-line.

Come adulti dobbiamo essere in grado di gestire le nostre emozioni e contare almeno fino a 10 prima di accettare un cambiamento del contesto digitale che ci circonda; riflettere, perché siamo noi stessi parte del cambiamento, e con i nostri “mi piace” e le condivisioni contribuiamo ad influenzare l’opinione pubblica. Abbiamo una grande responsabilità e quindi un grande potere, da gestire con attenzione.

Ora, mentre stiamo scrivendo, un nuovo pulsante è comparso sopra la barra della chat di Facebook, un pulsante che ci permette di dare priorità ai nostri contatti in base alla loro geo-localizzazione. Un’altra opzione non richiesta. Un altro cambiamento che influirà nella quotidianità di milioni di persone. Accettare passivamente questi cambiamenti vuol dire accettare una visione del futuro.

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DOBBIAMO informarci, ed educare le giovani generazioni  ad informarsi su quanto accade loro. Ad utilizzare questi strumenti con consapevolezza, restituendo loro la possibilità di scegliere.

 

 

 

 

 

Angela Biancat Social Media e Community Manager, collabora come freelance con associazioni, enti e privati nella pianificazione delle strategie di comunicazione web dei loro progetti e nella gestione dei canali social.

Tiene corsi sul corretto utilizzo dei social media e sulla consapevolezza online, rivolti a lavoratori, giovani e over50, in enti di formazione delle province di Udine e Pordenone.

Gregorio Ceccone Formatore, educatore, curioso. Queste le tre parole per descrivere Gregorio. Educare ai Nuovi Media per lui significa promuovere un ambiente formativo sereno e svincolato dagli stereotipi e dalle paure per accompagnare i nuovi cittadini digitali.

Esperto nel settore dell’E-learning e della Media Education collabora diverse realtà educative e formative in molteplici campi: dalla scuola, alla strada, al web.

 

Autunno: accompagnare l’ambientamento al “nido” o alla scuola dell’infanzia

di Giacoma Di Marco, pedagogista, formatrice Kaloi e counsellor

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Autunno, la scuola è ricominciata.

La stagione in cui per alcune migliaia di bambini è iniziato un periodo davvero impegnativo, fatto di nuove conoscenze, ambienti nuovi e nuove maestre: è quello che succede anche a tutti i piccoli che per la prima volta iniziano a frequentare l’asilo nido o la scuola per l’infanzia.

Nel corso degli anni portare il bambino al nido e/o alla scuola dell’infanzia è diventata una opportunità per le famiglie e non solo una necessità: queste strutture sono luoghi educativi in cui i bambini hanno la possibilità di giocare insieme ad altri bambini, confrontarsi con altri adulti, imparare a cooperare e instaurare rapporti affettivi e di amicizia.

L’approccio iniziale a questa esperienza è definita “ambientamento”, termine che meglio specifica il significato di questo momento. L’ambientamento è caratterizzato da tutte quelle attività che mirano a favorire l’ingresso all’asilo nido del bambino, rispettando i suoi tempi e aiutandolo ad affrontare il cambiamento che sta per avvenire nella sua quotidianità. È un’esperienza che il bambino affronta con la presenza e il sostegno di una figura di riferimento, che spesso è mamma o papà.

A toddler holding his mother's hand as he goes to daycare.
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La comunità riconosce infatti nella famiglia un ruolo attivo, di interlocutore e non solo di fruitore del servizio, e valorizza l’importanza del legame di attaccamento alle figure familiari, legame che costituisce il “sistema motivazionale centrale nei primi anni di vita“. Inoltre, offre al bambino la possibilità di mantenere un rapporto di vicinanza con le persone che gli assicurano protezione,”permettendogli di sentirsi sicuro anche quando queste figure si allontanano nella certezza del ritorno” (M. Ammanniti).

Teoricamente parlando, l’intervento educativo si esplica nei diversi contesti di appartenenza (sistema-famiglia e sistema-nido), tra loro reciprocamente interdipendenti ed influenzanti. Secondo la teoria sistemico relazionale ecologica di Bronfenbrenner, il bambino agisce in tali contesti-sistemi portando le proprie competenze ed esperienze e ricevendone stimoli.

All’interno dell’asilo nido (ma anche alla scuola dell’infanzia) si lavora molto per rendere il momento dell’ambientamento un periodo ben organizzato e le “maestre” si impegnano a dare il massimo della loro presenza, per aiutare i genitori e i bambini a viverlo serenamente e a sentirsi accolti nei loro bisogni.

mamma-bambino-al-nidoL’attenzione dell’educatrice è centrata sul benessere del bambino e su come reagisce ai vari momenti dell’ambientamento; allo stesso modo, l’insegnante ha cura di creare una buona relazione con la figura di riferimento del bambino e di sostenerla e aiutarla, e, se non è pronta alla separazione dal proprio bambino, a prendere consapevolezza della fatica che entrambi sono chiamati a fronteggiare.

Talvolta le famiglie si lamentano per il tempo che viene richiesto loro per inserire il proprio bimbo all’interno della struttura, considerandolo eccessivo; l’insegnante spiega e fa presente perché si richiedono due settimane di tempo per l’ambientamento, ma è anche disponibile ad accettare dei cambiamenti nella propria organizzazione, dopo aver conosciuto e osservato il bambino. Questo per tutelare il bambino ma anche per ascoltare il punto di vista dei genitori, che in situazione, osservando le difficoltà che il proprio bimbo deve sostenere, cercano e trovano soluzioni adeguate sia per i loro tempi di lavoro sia per il loro piccolo, facendo per esempio continuare l’ambientamento ai nonni che se ne prendono cura quando sta poco bene.

Quando un genitore prende consapevolezza della fatica del proprio bambino e decide di aspettare a separarsi da lui, prendendosi del tempo (per sé e per il figlio), spesso tutto si acquieta e si risolve in poche giornate: la serenità della propria figura di riferimento permette al bambino di nutrire fiducia in un ambiente e in persone che ancora conosce poco.

losbrogliamente stefania tedesco storie 0-3Una delle funzioni dell’insegnante è proprio quella di stabilire con la famiglia una relazione basata sulla fiducia, che non può essere considerata un punto di partenza ma un risultato da raggiungere. Le componenti sulle quali questa si costruisce riguardano non solo gli aspetti relazionali, ma anche gli spazi di partecipazione offerti alle famiglie e l’informazione costante e puntuale sugli aspetti organizzativi. Un clima relazionale positivo, unito alla conoscenza del servizio come luogo di promozione di cultura dell’infanzia, sviluppa nel genitore l’idea di un posto pensato e realizzato per il benessere del bambino.

Rendere familiare l’ambiente alla coppia adulto-bambino è molto importante; ciò può essere realizzato sia osservando ed assumendo le abitudini e lo stile relazionale del genitore e del bambino, sia creando nei momenti di accoglienza e separazione dei rituali che rassicurino entrambi. Inoltre l’osservazione dello stile relazionale che caratterizza la coppia genitore-bambino permette all’insegnante di riconoscere i sentimenti agiti e, assumendo il punto di vista del genitore, di comprendere meglio i suoi bisogni.

Il tempo diventa un elemento indispensabile per imparare a conoscere la vita dell’asilo nido (come della scuola dell’infanzia), con le sue routines, gli ambienti e le persone che lo animano.

Bibliografia:

Ammanniti, a cura di, Attaccamento e rapporto di coppia, Ed. Raffaello Cortina, 1995

Bronfenbrenner, The Ecology of Human Development. Experiments by Nature and Design. Cambridge: Harvard University Press, 1979 (tr. it. Ecologia dello sviluppo umano, Bologna, Il Mulino, 1996)

Decalogo per un buon anno scolastico

di Licia Coppo, pedagogista, formatrice Kaloi e counsellor

Disegni-Autunno-da-ColorareNon a caso la scuola inizia a settembre. Credo non ci sia mese più adatto: un giorno fa caldo, il giorno dopo sferza un vento gelido, una mattina piove, un’altra c’è il sole. L’autunno è mutevole tanto quanto sono ambivalenti i sentimenti che accompagnano l’inizio delle lezioni. I genitori alternano un vero e proprio entusiasmo da stadio, comprensibile dopo una lunga estate di acrobatici incastri (soprattutto per chi ha figli piccoli), alla preoccupazione per la ripresa di ritmi frenetici, compiti e studio (soprattutto per chi invece ha figli più grandi); e poi i soliti dubbi: “chissà come sarà la nuova maestra?”, “avremo scelto la scuola giusta?”, “speriamo che quest’anno studi di più”, “ci saranno dei ripetenti?”, e chi più ne ha più ne metta. Ormai, a quanto pare, a scuola ci vanno anche i genitori.

Dal canto loro, gli insegnanti non scherzano, quanto a schizofrenia emotiva: c’è voglia di ripresa, l’estate ha caricato di nuove energie, ma allo stesso tempo ci sono ‘i mal di pancia’ del primo giorno di scuola, che accompagnano per tutta la vita la professione di docente. Ci sono nuove relazioni da costruire, quest’anno ulteriori cambiamenti legislativi e burocratici.

Group of happy children lying on green grass outdoors in spring park

E poi ci sono loro, i veri protagonisti: bambini e ragazzi che hanno ancora nel cuore il profumo del mare e il sapore del tempo libero, e allo stesso tempo voglia di rivedere i compagni, gli amici di altre classi, qualcuno anche la maestra o i professori. Sotto sotto, qualche studente desidera tornare a sentirsi impegnato, a imparare, a conoscere cose nuove (anche se nessuno lo ammetterebbe mai!).

Dentro questa ambivalenza, anche salutare, cosa possiamo fare perché il nuovo anno scolastico riprenda al meglio? E perché prosegua positivamente? Bambini e ragazzi fanno già la loro parte, andando a scuola.

Le carte giuste se le devono giocare gli adulti. Sì, perché insegnanti e genitori hanno un enorme potere: in base a come gestiscono il loro ruolo nella vicenda, possono influenzarne l’esito. Potrebbero contribuire a far vivere un ottimo o un pessimo anno scolastico al loro figlio/alunno.

Vediamo allora un DECALOGO rivolto a insegnanti e genitori:

  1. INSEGNANTI: iniziate con gradualità, ponendo attenzione soprattutto nei primi mesi a ‘porre le buone basi’ delle dinamiche relazionali. E questo non vale solo per chi insegna in una prima: ogni anno i bambini si ritrovano dopo l’estate e devono ri-misurarsi nella loro capacità di stare in gruppo. Qualche ritardo sul programma si recupera, le lacune relazionali sono ben più difficili da rattoppare.
  2. GENITORI: siate ottimisti e felici dell’inizio della scuola! Non solo perché vi “liberate” dei figli, ma per passare loro utili messaggi: “è bello imparare”, “la scuola è fondamentale”, “le tue insegnanti sono importanti per me e mi fido di loro”. Incoraggiateli a credere nell’istituzione Scuola, e non caricateli di mille attività sportive o extrascolastiche. Lo sport o la musica fanno bene, se scelte e vissute con serenità. L’overload di impegni non giova a nessuno!
  3. INSEGNANTI: fate di tutto per accogliere e coinvolgere anche i genitori nella vita scolastica dei loro figli. Quei pochi colloqui all’anno (tra l’altro in quell’arena infernale che si crea alle scuole medie e superiori, che demotiverebbe anche un monaco tibetano) non sono sufficienti per costruire una vera collaborazione. Un po’ di creatività e flessibilità a scuola non guasterebbero. Un po’ di pregiudizio positivo verso le famiglie aiuterebbe. Lo so, è dura. D’altronde, avete scelto il secondo mestiere più difficile al mondo (il primo è quello del genitore!)
  4. GENITORI: siate presenti e collaborativi con gli insegnanti. Andate almeno al primo colloquio dell’anno, alla riunione di presentazione dei progetti. Sono momenti importanti! Se c’è un problema in classe, parlatene con gli insegnanti, non con l’obiettivo di giustificare o iper-tutelare vostro figlio, ma per capire, per risolverlo insieme. Siate pregiudizialmente positivi verso gli insegnanti dei vostri figli! E condividete con loro i fatti salienti della vostra vita familiare quando andate al colloquio: ogni bambini, ogni ragazzo a scuola porta tutto sé stesso…
  5. INSEGNANTI: la Scuola deve, prima di ogni cosa, appassionare e trasmettere il piacere di apprendere. Siate creativi, trovate modi nuovi e divertenti per insegnare. Il web è ormai ricco di idee e possibilità. Più laboratori, più esperienza, meno nozioni. Non fermatevi alla cattedra, non difendetevi dietro alla burocrazia e ai programmi: sono solo dei confini, non delle catene. Il cambiamento è faticoso, ma poi gratificaClasse
  6. GENITORI: fate studiare i vostri figli con impegno, fate svolgere loro i compiti assegnati; senza trasformarvi in ‘assistenti alla scrivania’; meglio un 7 guadagnato studiando in autonomia, che un 9 sudato dopo ore di discussioni. Però presidiate la loro vita scolastica, non minimizzate il loro lavoro. E non giustificateli mai! Neanche quando i compiti vi sembrano troppi o assurdi. Se c’è un problema parlatene coi docenti. Se il carico scolastico o di compiti vi pare eccessivo, confrontatevi prima con gli altri genitori, poi parlatene coi docenti. Non screditate l’insegnante o la Scuola. Non fa bene a nessuno: gli adulti che si screditano a vicenda perdono di credibilità.
  7. INSEGNANTI: date spazio e attenzione tutto l’anno alla dimensione emotiva e affettiva dei vostri alunni. Non si impara solo con la testa: quando il ‘cuore’ e ‘la pancia’ stanno bene, allora anche la testa funziona! In alcune scuole ogni lunedì mattina i bambini siedono in cerchio per un’ora a fare il “bollettino delle emozioni”, raccontandosi le vicende del weekend; perdita di tempo? Niente affatto, è un prezioso esercizio di ascolto per i bambini. E rafforza la fiducia nel gruppo. Coi ragazzi più grandi, attivate più spesso ‘discussioni di gruppo’ sui fatti di cronaca o su problematiche del gruppo classe. L’educazione al pensiero morale è un compito della scuola.
  8. GENITORI: non chiedete ai vostri figli solo “cosa hai fatto a scuola?”, ma anche “come stai a scuola?”. Se vostro figlio ha una difficoltà relazionale in classe, se non riesce a inserirsi, se è vittima di derisioni, non alzate subito gli scudi per proteggerlo. Cercate di capire. Provate a dargli strategie e suggerimenti. Parlatene con gli altri genitori. Coi docenti. Se vi dicono che è lui a fare il prepotente, o che a scuola è indisciplinato, non pensiate di risolvere tutto solo con un castigo (anche se serve, badate bene!!). Cercate di capire. Fatevi aiutare dai docenti o da altre figure pedagogiche. Magari anche dall’allenatore sportivo, perché no?
  9. INSEGNANTI: collaborate positivamente coi colleghi. Le nicchie di autoreferenzialità sono il male della scuola di oggi! Trovate strategie per auto-motivarvi: un corso di formazione, libri e letture che vi tengano sempre aggiornati, attività pomeridiane che vi ‘carichino’. Il vostro è un lavoro ad alta energia relazionale, dovete averne tanta per i vostri alunni. Cercate intenzionalmente di avere sempre le pile cariche!
  10. GENITORI: create una rete sana coi genitori della classe di vostro figlio. La figura del rappresentante di classe serve anche a questo. Parlate tra di voi! Evitate i gruppi whatsapp per fare il muro del pianto o “l’incavolatoio” di gruppo. Usateli piuttosto per socializzare tra voi in modo sano, cosa che può fare bene anche ai vostri figli. Magari per darvi delle strategie comuni di tipo educativo, ad esempio “decidiamo tutti di non far portare i cellulari in gita?”. Generalmente quando si crea un bel gruppo di genitori della classe, anche il gruppo classe degli alunni è più positivo. Sarà un caso?

E allora buon inizio e buon proseguimento, con una citazione che speriamo vi accompagni nell’anno!

“Il vero cuore della Scuola è fatto di ore di lezione che possono essere avventure, incontri, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Quello che resta della Scuola è la bellezza dell’ora di lezione.”

Massimo Recalcati, “L’ora di lezione”- Einaudi

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