L’autoefficacia per raggiungere i propri obiettivi

di Francesco Venturini, medico psicoterapeuta e formatore Kaloi

Capita a tutti di desiderare il raggiungimento di un obiettivo o la realizzazione di uno scopo. E quando obiettivi e scopi vengono raggiunti, possono anche portare ad un miglioramento della qualità della vita. Gli obiettivi possono interessare vari ambiti dell’esistenza di una persona: traguardi di studio, obiettivi professionali, il miglioramento della propria salute, il raggiungimento di una buona prestazione sportiva e così via. Spesso però i desideri… restano desideri e a questi si sostituisce il rimpianto per non essere riusciti a realizzarli. L’incapacità di realizzazione può essere dovuta ad una sensazione di sfiducia nella propria persona e nelle proprie capacità, spesso anche per la presenza di convinzioni “limitanti” che ostacolano l’intraprendenza nell’agire e che possono risalire all’età giovanile. Molte persone infatti riescono a riconoscere nel fondo del proprio animo la presenza di un sottile sentimento di autosvalutazione, di sensazione di doversi accontentare, di essere esclusi dal “gioco” perché… non si è bravi abbastanza o capaci come gli altri. Questo sentimento può contribuire a far nascere un senso di sfiducia e di “impotenza appresa”.

Riuscire a “sganciarsi” da questo costrutto e cominciare ad “osare” sono i primi passi da muovere per riuscire a raggiungere un obiettivo. Quindi, se abbiamo un desiderio di miglioramento nella nostra vita non indugiamo troppo nel rimuginare ma cominciamo ad agire con determinazione!

Per riuscirci dobbiamo all’inizio cercare di capire quali sono i pensieri che ostacolano l’entrata in azione dei nostri comportamenti efficaci, tenendo presente che spesso non è facile comprendere quali siano e come determinino il nostro stato d’animo, perplesso nell’agire se non sfiduciato già in partenza. Con un lavoro personale, fatto anche di riflessioni, di letture, di partecipazione a gruppi o con l’aiuto di un professionista è possibile disinnescare queste convinzioni limitanti ed avviarsi verso il successo.

Infatti, per giungere a questo non è solo importante avere una buona autostima ma serve anche una buona Autoefficacia; essa consiste nel saper padroneggiare le abilità e le competenze che servono per giungere al risultato voluto, ma anche a poter superare situazioni difficili che la vita a volte presenta.

Per Autoefficacia intendiamo la convinzione di poter fronteggiare e affrontare efficacemente certe prove, di sentirsi all’altezza di superare determinati eventi, di affrontare dei compiti specifici e soprattutto di essere capaci di impegnarsi a fondo in quelle attività che permettano di raggiungere lo scopo: quanto più si è capaci di influenzare gli eventi tanto più si riesce ad influire sul percorso che può portare al risultato desiderato. Lo psicologo americano Albert Bandura ha introdotto il termine Autoefficacia, definendola come “la convinzione di essere in grado di organizzare e realizzare le azioni per gestire adeguatamente le situazioni che si incontrano in un particolare contesto in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati” e anche “le convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati”.

L’Autoefficacia è dunque quella dimensione della personalità che permette all’individuo di porsi dei traguardi, di perseguire il loro raggiungimento con azioni appropriate e di riuscire ad automotivarsi per raggiungere lo scopo. Tutto questo richiede la capacità di coltivare l’autocontrollo e l’autoregolazione. Il “senso di Autoefficacia” risulta utile soprattutto nelle situazioni nuove o complesse, che possono anche portare a cambiamenti positivi nella vita: saper affrontare adeguatamente questi frangenti richiede il conoscere le abilità che si possiedono, sapere come fare ma soprattutto essere convinti di poterle utilizzare al meglio.

Essere Autoefficaci non significa infatti possedere un numero notevole di competenze, ma essere capaci di utilizzare efficacemente le competenze possedute, anche se in quantità ridotta. Essere consapevoli della propria Autoefficacia ha anche un’influenza sugli obiettivi che le persone vogliono perseguire: tanto più sono convinte delle proprie capacità (cioè tanto maggiore è il loro senso di Autoefficacia), tanto più saranno importanti gli obiettivi che sceglieranno. Non solo: sarà maggiore anche la perseveranza e la tenacia con cui porteranno a compimento l’azione. Sotto questo punto di vista, l’Autoefficacia aumenta l’Autostima in un circolo virtuoso.

La fiducia nelle proprie capacità ha dei risvolti positivi anche sul senso di controllo in diversi fronti personali: dal controllo delle emozioni, dei comportamenti in famiglia, sul lavoro, sul miglioramento della propria salute, fino a riuscire a trasformare situazioni da sfavorevoli in favorevoli. L’avere una buona efficacia personale porta ad un benessere psicologico e fisico, al successo professionale, al saper attuare strategie di cambiamento.

Possiamo delineare due tipi di persone: quelle che hanno una bassa Autoefficacia e quelle che invece l’hanno alta.

Le persone che hanno un basso senso di Autoefficacia hanno basse aspirazioni e si accontentano di quello che già possiedono, cercano di evitare i compiti difficili perché si sentono incapaci di affrontarli e portarli a termine, non riescono a cogliere le opportunità che la vita propone e rinunciano facilmente quando incontrano delle difficoltà. In questi casi, un lavoro personale può essere rivolto a rinforzare la persona stessa e il suo senso di efficacia con appositi interventi psicoterapici.

Diverso è l’approccio alla vita di chi possiede un’alta Autoefficacia: innanzitutto si sente capace di controllare quello che succede e ha alte aspirazioni. Quando si pone un obiettivo persevera per raggiungerlo ed è capace di affrontare gli stressors che la vita gli pone davanti. Non solo: in presenza di ostacoli raddoppia l’impegno e non si abbatte facilmente. Infine, ma non ultimo, viene poco colpito dalla depressione.

Ottimismo e Autoefficacia sono legati: la persona ottimista vede più ampliate le proprie possibilità e capacità; inoltre, sia l’ottimismo che l’Autoefficacia orientano l’individuo al benessere, essendo questo dipendente anche da una visione positiva della vita. Cominciare a prendere in considerazione le proprie credenze di efficacia, dopo aver modificato le credenze limitanti, porta a una migliore conoscenza di sé e delle proprie caratteristiche positive. Fa definire i punti di forza della persona stessa e la spinge verso il cambiamento.

Le persone dotate di un buon senso di autoefficacia possiedono delle caratteristiche:

– individuano obiettivi realistici da raggiungere per migliorare la loro situazione;

– hanno fiducia nelle proprie capacità;

– sono convinte della possibilità di ottenere un successo;

– si attivano per raggiungere uno scopo e ricercano sostegno sociale.

La capacità di essere autoefficaci può essere sviluppata e aumentata seguendo queste 5 regole :

1 – Sentirsi padroni delle proprie competenze. È la qualità più potente: essere consapevoli delle proprie capacità, oltre ad aumentare   l’autostima, rende più sicuri di sé, fiduciosi nelle possibilità di raggiungere un obiettivo o di attuare un cambiamento e poi mantenerlo.

2 – Trovare degli esempi di persone che possono aiutare il rinforzo delle azioni. È questo il cosiddetto processo di “modeling”, secondo il quale il comportamento può essere “modellato” sull’esempio di persone che hanno vissuto le stesse esperienze o difficoltà superandole con successo.

3 – Rivedere il significato attribuito agli eventi. Spesso per motivi culturali o per una visione pessimistica dell’esistenza gli accadimenti della vita sono vissuti in modo passivo e quasi fatalistico, senza scorgere in essi la possibilità ad un cambiamento positivo.

4 – Lavorare su se stessi con la persuasione. Il consolidamento del senso di autoefficacia avviene anche con un’opera di convincimento esercitata su se stessi, allo scopo di aumentare la perseveranza, rinsaldare le proprie decisioni ed evitare cedimenti.

5 – Sapere gestire gli stati affettivi negativi. Anche trasformandoli in occasioni di crescita e cambiamento in meglio. La persona consapevole della propria autoefficacia può affrontare con una prospettiva diversa anche avvenimenti logoranti e momenti difficili perché in se stessa sa ritrovare risorse per superarli.

Non dimenticando che l’uomo è un “animale sociale” e ha bisogno dei suoi simili, coltivare l’Autoefficacia vuol dire essere capaci di autoregolazione. E questa porta ad esiti vincenti!

AAA Pedagogista Cercasi: mondo scuola e nuove emergenze educative

di Arianna Ferlin, pedagogista e formatrice Kaloi

A chi ha la buona abitudine di leggere quotidiani o articoli sul web non sarà sfuggito il recente sondaggio, presentato dall’Ordine degli Psicologi del Veneto, in cui i cittadini della regione si sono espressi a favore della presenza permanente della figura dello psicologo all’interno delle scuole (oltre il 60% degli intervistati). Così, visto che qualsiasi notizia che contenga la parola SCUOLA accende in me una irrefrenabile curiosità (e, diciamocelo, anche una trepidante speranza in un suo futuro migliore), mi sono resa conto che questi articoli si prestavano a farmi riflettere su più fronti: da una parte sono felice che la scuola sia un tema “sulla bocca” di molti e che si ritorni a pensare e a valutare quali siano le necessità di un’istituzione spesso bistrattata dai politici di turno e da una società che non ripone più in essa le proprie speranze  (anzi, spesso la vede come un contenitore in cui scaricare le proprie “colpe”); dall’altra parte, però, mi ritrovo, da pedagogista ed ex insegnante, a pensare a quanto il mondo della scuola stia perdendo la bussola che l’ha sempre fatta navigare in mari più o meno tempestosi: l’educazione.

Dov’è finita l’educazione, quell’orientamento pedagogico che è azione e pensiero assieme?

 

Quando è stata messa in soffitta prediligendo la clinica e la tecnica didattica? Non fraintendetemi, amo la psicologia e ritengo sia una scienza importantissima per rendere completa una riflessione globale sui meccanismi che coinvolgono la scuola e chiunque ne faccia parte…ma la psicologia nulla può, se a muovere i fili non vi è la didattica viva, quel profondo bisogno di mettere al centro la relazione, la reciprocità e di vedere ogni studente e ogni insegnante nella sua unicità e al tempo stesso nella sua globalità!

Probabilmente anche per questo lo scorso dicembre è finalmente venuta alla luce la Legge 2443 (Legge Iori), che sancisce riconoscimento professionale, regolamentazione e tutela alla professione di educatore e pedagogista, professioni dalle origini antichissime, ma che hanno dovuto attendere il 2017 per vedere riconosciuta “ufficialmente” la propria importanza .

Ciò che è certo è che la Pedagogia non ha atteso un Decreto per operare laddove vi è più bisogno di lei: la scuola! Una scuola che al giorno d’oggi si trova davvero in una situazione di emergenza educativa e i numerosi fatti di cronaca ne sono la dimostrazione (accanto ad alunni con disabilità, vediamo il dilagare di episodi di bullismo, le difficoltà di alunni con disturbi dell’apprendimento, ADHD, svantaggio socio-economico, linguistico, culturale e l’altalenante integrazione di studenti stranieri). Insomma, la scuola è davvero messa a dura prova! Ma possiamo anche dire che la scuola nasce proprio da e per questo: se tutto fosse facile, se esistessero solo studenti “perfetti” (utopia fortunatamente irraggiungibile!) non avrebbe motivo di esistere, visto che l’ideale educativo che persegue per sua natura è quello di creare, per dirla alla Lombardo Radice, “personalità umane complete ed originali”. Questo sarà possibile solo se la scuola spalancherà le porte alla pedagogia, quotidianamente, senza grosse rivoluzioni, ma compiendo piccoli passi, giorno dopo giorno, verso la comprensione dei reali bisogni formativi di bambini e ragazzi, bisogni che sono in continua evoluzione, travolti dai vorticosi cambiamenti sociali, economici, culturali, digitali… generazionali!

Ecco allora che i pedagogisti e gli educatori, quando verrà data loro la possibilità di vivere quotidianamente l’esperienza scolastica come parte integrante del sistema scolastico, potranno affiancare (senza mai sostituire) gli insegnanti, nella creazione di programmi didattici e progetti calati sulla reale necessità educativa e preventiva; solo così potranno mirare a sviluppare davvero le potenzialità degli studenti, perché i loro sono progetti nati dall’osservazione, dall’esperienza concreta, dalla formazione continua e dall’aver rivolto lo sguardo proprio alla meravigliosa, seppur complessa, globalità e unicità di ciascuno!

Insomma, nella pratica può davvero essere utile alla scuola la figura del pedagogista? Io credo fermamente di sì! Poiché la pedagogia converge per sua natura verso la scuola, attraverso  azioni educative che facilitino il percorso di apprendimento, la consulenza alle famiglie, l’orientamento dei ragazzi nella scelta del loro futuro, la progettazione di interventi di prevenzione del disagio e della dispersione, l’individuazione precoce delle difficoltà di apprendimento, la stesura di PDP calati sullo studente a partire dai suoi punti forza e da obiettivi realistici e monitorati nel tempo.

La nostra scuola ha bisogno, più che di essere “curata”, di essere guidata, sostenuta, progettata!

Forse tutte queste parole hanno aggiunto ancor più domande su cosa rappresenti oggi la figura del pedagogista. Se così fosse ne sarò contenta, perché solo ponendoci nuove domande si potrà dare vita ad un nuovo modo di concepire la scuola, che  potrà tendere ad un grande obiettivo, ovvero (“rubando” una citazione a Jean Piaget) “creare uomini che sono capaci di fare cose nuove, e non semplicemente ripetere quello che altre generazioni hanno fatto”.

Amore, troppo amore

di Licia Coppo, pedagogista, counsellor e formatrice Kaloi

Che cosa c’entra la parola AMORE con il rapporto con i figli e la loro educazione? E’ un altro tipo di amore quello di cui parleremo oggi, no? Non sarà certo l’amore della coppia, quello che si celebra a San Valentino! In effetti così dovrebbe essere, ma non sempre è.

family_tiesIl rischio che qualche genitore, il 14 febbraio, porti a casa un mazzo di roselline al figlio e non al partner c’è. Anzi, ormai è cronaca quotidiana. Parola di fioristi!

Viviamo nell’epoca dei “GENITORI INNAMORATI DEI FIGLI”. Lo testimoniano gli innumerevoli post su facebook, con tanto di album fotografico di ogni momento della vita del figlio, colmi di cuori e di emoticon con gli occhi languidi. Lo testimoniano le maestre, soprattutto quelle della scuola dell’infanzia, che sempre più spesso devono gestire acrobatici colloqui con genitori che non possono sopportare che il loro bambino sia stato sgridato, magari si sia preso una spinta da un compagno di scuola, che quindi abbia pianto. Come se la sofferenza, minima e inevitabile in un percorso di crescita, fosse la loro. E diventa inaccettabile vedere il figlio ‘stare male’, proprio come avviene nel rapporto di coppia, in cui la sofferenza dell’altro è intollerabile. Perlomeno nella fase dell’innamoramento. Poi, come sappiamo, la coppia evolve e subentrano le routine; a volte, negli anni, l’altro diventa al contrario motivo di insofferenza. Incredibile dictu!

Ebbene, accade anche con i figli: dopo anni di OVERDOSE AFFETTIVA verso gli adorati frutti del nostro grembo, immortalati in milioni di click, riempiti di baci e coccole, ci svegliamo una mattina e scopriamo che quel figlio tanto amato è diventato una serpe, un tiranno incappucciato in felpe oversize, silenzioso consumatore di beni materiali e di energie relazionali, incapace di un minimo di riconoscimento per tutto l’amore e le opportunità ricevute. Ops! Cosa è accaduto? Forse lo abbiamo amato “troppo”; o di un amore non materno e paterno.

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Caroline Thompson, nel suo interessante libro “Genitori che amano troppo – e figli che non riescono a crescere”, conduce proprio alcune riflessioni in questa direzione: “si è verificata un’inversione di ruoli per cui non sono più i genitori a guidare i figli, ma sono i figli a dover sostenere i genitori smarriti, vittime di angoscia di separazione. E più i genitori sono angosciati, più i figli sono sommersi dal senso di colpa e oscillano tra sottomissione e ribellione, senza riuscire a trovare la via dell’indipendenza. Il figlio è sovrano, ma è un sovrano prigioniero del suo regno”.

Come ripartire allora nella GIUSTA DIREZIONE? L’amore ha varie forme, alcuni funzionali nel rapporto genitori-figli, altre certamente malsane. Sulla Treccani, cercando la definizione di “Amore”, alla prima riga troviamo: “Sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercane la compagnia”. Interessante. Purché – parlando di figli – la compagnia abbia il limite dei 30 anni! Magari 25, che sarebbe più opportuno. E purché le mie AZIONI di genitore siano CENTRATE SUL BENE DEL FIGLIO.

11011202_10206479935026140_1020168195634090010_nQui c’è la chiave di volta; concedetemi allora un gioco di parole: fare il suo bene è diverso da volergli bene. Voler bene è importante, certo! E normalmente ci viene facile. Quando “ci si vuole bene” c’è una reciprocità in quell’affetto che fa star bene anche noi adulti. Fa stare ‘al caldo’. Chi, come me, ha figli già più grandini, ricorda con nostalgia il piacere di un abbraccio con il proprio cucciolo di 2 o 3 anni. O i dolci disegni portati a casa per la festa della mamma a 4 o 5 anni! Fare il bene del figlio è assai più complesso, a volte sembra dissonante con l’idea di amore. Ma è amore anche questo, anzi è la FORMA DI AMORE PIU’ DIFFICILE: quella che lavora per PROMUOVERE LE AUTONOMIE in un figlio, per esempio. Insistendo perché lui si vesta da solo, si lavi da solo, dorma da solo, studi da solo.

Quella che NON E’ MORBOSA, che accetta che vi sia una fase della vita dove gli amici sono tutto e tu genitore non conti più niente. E gli abbracci sono vietati. Per cui bisogna accontentarsi di fare una carezza col pensiero.

Quella che sa LASCIAR ANDARE, quando il figlio sedicenne vuole fare un’esperienza di studio all’estero.

Quella che può anche DIRE DI NO alla richiesta del figlio di 13 anni di andare a una festa che finisce tardi, pur sapendo che il figlio soffrirà per quel divieto, per quella limitazione della sua libertà; perché è ancora troppo giovane per poterla gestire. E quindi AMARE E’ ANCHE LIMITARE. Ricordandoci che noi siamo la guida, coloro che sanno quale sia il bene dei figli; proprio perché li amiamo, non lasciamo sempre a loro il potere di scegliere e di decidere.

9788804589563-genitori-che-amano-troppo_copertina_piatta_foSottolinea ancora la Thompson: “ci facciamo vanto di trattarli come pari, e non ci accorgiamo che così non gli consentiamo di vivere la loro infanzia e non assolviamo al nostro compito di genitori, che si fonda sulla differenza e non sull’affinità. Non ci accorgiamo che amare troppo i figli significa anche esporli alla nostra delusione, perché non sempre riusciranno a essere all’altezza delle nostre attese. Significa pretendere che essi ci amino a loro volta. Significa privarli della libertà impedendo loro di emanciparsi”.

In conclusione, giusto per evitare equivoci, l’invito non è a non amare i figli. Ma ad AMARLI NEL MODO GIUSTO. Di quell’amore genitoriale che non vincola, ma mette le ali. Non lega a sé, ma invita a correre lontano per conoscere il mondo. Perché i figli abbiano gli strumenti per volare alto, fuori dal nido familiare. Sicuri e forti, quando faranno le loro esperienze, perché avranno sperimentato l’amore vero, l’amore utile. E ne conserveranno una sana nostalgia, che sarà la spinta per donarlo ad altri.

Articolo pubblicato a febbraio 2015 sul Corriere della Valle, giornale locale valdostano, nella rubrica PAROLE PER EDUCARE, curata dalla nostra formatrice Kaloi Licia Coppo

Educare o sopravvivere? Il tempo che dai è la qualità che ricevi

di Fabio Olivieri, pedagogista, counsellor rogersiano, dottorando in teoria e ricerca educativa, Università di Roma Tre

TYP-463111-4788799-genitori“Ci risiamo. Ogni volta la stessa storia!” è il grido funesto di un genitore alle prese con l’ennesima ramanzina. Sembra ci sia un sottile sadismo, da parte dei bambini, nel far rimbalzare come una gomma ogni richiesta avanzata dal mondo adulto. Sono sicuro che molti tra noi sono convinti che i bambini scelgano sempre il momento meno opportuno, ci sfidino, vogliano mettere a dura prova la nostra pazienza.

Eppure tutto questo non è che la somma di intenzionalità presunte, attribuite dai genitori ai propri figli. E dagli educatori ai propri educandi. Pensarli come stati mentali dell’altro ci induce a muoverci e ad agire come fossero reali. Ignoriamo che certi comportamenti appartengono al normale decorso evolutivo, e li trasformiamo in tratti stabili della personalità del bambino, in qualche modo cristallizzandolo all’interno di condotte che saranno poi oggetto di valutazione da parte del mondo e arricchiranno quadri diagnostici sempre più ampi e capaci di includere ogni minima deviazione dagli standard prefissati. La sensazione che ne traiamo è che si cerchi insistentemente una giustificazione coerente e legittima, addirittura scientifica, per non ammettere l’incapacità educativa che come un’epidemia sembra aver infettato il mondo adulto di questo millennio.

Stiamo sostituendo l’anamnesi sanitaria all’autocritica.

TempoNon abbiamo il coraggio di riconoscere i limiti, oggettivi e soggettivi che viviamo in quanto esseri vulnerabili, cui nessuno ha mai insegnato come si educa un altro individuo in carne ed ossa. Non riusciamo ad ammettere che gli spazi di disponibilità da parte del mondo adulto si sono drasticamente ridotti. Che i frammenti di tempo che abbiamo a disposizione non vengono più investiti in  momenti familiari utili a costituire i ricordi infantili dei nostri figli una volta divenuti adulti. Il tempo dell’educare è predato dalle incombenze del vivere e dalla spoglia superficialità del sopravvivere. È vero, c’è il lavoro e l’esigenza di garantire le risorse necessarie alla crescita dei nostri figli. Un tempo produttivo che ormai si espande oltre il terzo della giornata e che ci richiama continuamente alla necessità e alla logica delle emergenze. Queste ultime, sempre più numerose, rischiano di trasformare l’eccezione in ordinarietà. Rischiano di sostituire la pianificazione e la progettualità educativa con formule alla buona, traballanti, derivate dal senso comune o dall’ultimo best seller di Lucia Rizzo (s.o.s. Tata). Ciò che resta da questa sottrazione di senso sembra essere inghiottito dall’universo dell’Entertainment con i suoi inviti rassicuranti, seduttivi, al limite della banalità e riconducibili al trinomio: sesso, morte e denaro.

Abbiamo imparato a pensare i nostri figli con le parole di altri, gli esperti di turno, col risultato che ci resta sempre più difficile coglierne l’eccezionalità. I bambini, per parafrasare Gilardi, autore del libro “Ho un sogno per mio figlio”, diventano esseri “ fatti così!”, nella stupefacente ed imprevedibile lotteria genetica della vita. Avere un figlio educato e responsivo alle regole viene percepito come una provvidenza della dea bendata. “Accettiamo di tutto, purché ce ne diate uno ben educato! ” questa è in fondo la nostra richiesta, più o meno implicita. Il processo educativo non è più qualcosa che si adempie nell’incontro, ma diventa patrimonio individuale del soggetto, che la Natura magari ha beneficiato con un cervello più funzionale e responsivo di un altro. Accettare la dotazione genetica senza alcun contributo diretto da parte nostra significa spostarsi dal vivere al sopravvivere. Se il primo ci interessa e ci impegna con le nostre qualità uniche ed originali, chiedendoci di rinnovarci nell’immanenza del nostro esperire, il sopravvivere, ci seduce con il suo lasciar correre. Perchè in fondo ce lo meritiamo anche, dopo una dura giornata di lavoro!

Ma cosa accade quando le giornate si rincorrono l’una dopo l’altra, senza lasciare spazio alla riflessione consapevole? Ci ritroviamo ad essere vissuti più che a vivere. E i figli, al pari nostro, si adeguano a questo ritmo, nell’infaticabile sforzo di comprendere il mondo e di attribuirgli una certa coerenza, malgrado siano orfani di significati.  Accettiamo  il nostro essere al mondo come qualcosa di scontato, che segue i binari che qualcuno ha tracciato secoli prima per noi, oppure decidiamo di affidarci alla corrente del momento, quella più in auge.

In questo clima di deriva totale i bambini tentano di recuperare il nucleo significativo e pulsante del loro divenire originario. Leggono la ricchezza che gli si prospetta innanzi e non riescono ad associarla in alcun modo all’inedia apatica che vedono riflessa nel mondo adulto. Un mondo adulto che ha deciso di sottrarsi all’impegno familiare che dovrebbe costruirsi ancor prima di dare alla luce I figli. Un proposito che dovrebbe vivere quotidianamente nella capacità di essere, prima tra coniugi, rinforzo, conforto, cura e attenzione. Educare non è delegare alla scuola, né all’uomo nero di turno. Richiede un tempo dedicato. Educare è prima di tutto un esserci-nella-relazione. Imparare a nutrirla dall’interno. E’ un atto di responsabilità che coinvolge due o più soggettività che, incontrandosi nella loro intima essenza dialogante, cedono e guadagnano qualcosa in più. Perché al di fuori delle tecniche, delle scienze, degli strumenti, delle competenze, quel che resta è il volto umano in cui ci siamo imbattuti. Mentre le parole sfumano, come ci ricorda il sociologo francese Edgar Morin, il loro contributo nell’aver aperto nuovi canali di senso resta eternamente ancorato in noi. Ci supporta nelle nostre evoluzioni temporali, ricordandoci che l’umano necessita di umanità per poter vivere al mondo come tale.

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E allora, come fare se il tempo che ci resta è soltanto una parentesi di inattività? Indubbiamente è necessario lavorare dapprima su questo. Su quali siano realmente i nostri obiettivi di crescita e di traguardo nella maturità. Non sempre la famiglia vi trova spazio. Ma è fondamentale dircelo, quando questo accade, perché mettere al mondo nostri simili non è un obbligo, ma un atto libero e volontario. Una scelta che non si ripercuote soltanto su di noi, ma sull’umanità.

L’educazione infatti, proprio perché dialogico-relazionale non è mai una questione privata, è sempre pubblica e sociale. Come amo ricordare ai genitori che incontro: “Il rompiballe che la mattina al bancone del bar occupa tutto lo spazio mentre shakera col gomito il tuo cappuccino… è sempre FIGLIO di qualcuno!”.

Posta questa prima e necessaria condizione, sarà allora possibile guardare oltre. Comprendere che un essere umano è qualcosa di più che una semplice pianta grassa cui dare dell’acqua di tanto in tanto. La conoscenza della complessità del nostro sistema biologico e nervoso dovrebbe, a mio avviso, costituire la prima regola aurea di ogni intervento educativo, professionale e non. A nessuno verrebbe in mente di mettere le mani sul motore della propria auto senza possedere competenze di meccanica! Allo stesso modo, non possiamo pretendere di accompagnare lo sviluppo dei nostri bambini ignorando la loro (e la nostra!) biologia essenziale. Ritengo sia un atto di profonda ingiustizia togliere agli uomini o alle donne di domani la possibilità di desiderare di essere pienamente se stessi, per dirla con Rogers, e di contribuire positivamente al destino del mondo con i loro pensieri, sentimenti, intuizioni e invenzioni. La vita ha necessità di rinnovarsi continuamente per non cedere alla sopravvivenza. E noi adulti, genitori ed educatori, abbiamo il dovere morale di fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità per favorire il compimento di un tale processo. Necessitiamo allora di una preparazione adeguata a livello di competenze biologiche e relazionali. Perché le stesse dovremmo renderle oggetto di apprendimento per i nostri figli. Frequentare un percorso di crescita a livello individuale e di coppia, ancor prima che familiare. La preparazione alla genitorialità e alla vita sentimentale dovrebbe essere garantita come diritto/dovere da ogni municipalità pubblica e non restare appannaggio del solo ambiente religioso. Abbiamo bisogno di rifondare il modo in cui stare in famiglia e nel mondo. Occorre promuovere una socialità generativa, solidale e vitale e per farlo dovremmo ripartire daccapo, dall’origine e dalla conoscenza della materia che ci rende umani, per poi arrivare a comprendere il modo in cui funzioniamo ed infine proporci in qualità di figure capaci di costruire un futuro dignitoso per i nostri figli. Dove il tempo non sia più una margherita da sfogliare (ce l’ho/non ce l’ho) ma l’intento esplicito di voler testimoniare, attraverso la relazione, la ricchezza esistenziale dell’altro, che mi completa e mi significa come adulto del genere umano.

Per approfondire le tematiche introdotte dall’autore, consigliamo la lettura del suo libro recentemente pubblicato “EDUCAZIONE E NEUROBIOLOGIA. Cervello, empatia e processi morali”, edito da Aracne editrice.

copertina libro Olivieri clicca sull’immagine per saperne di più…

E’ fatto così!

 di Sabina Castelnuovo, pedagogista, formatrice Kaloi e counsellor

 

Scuola dell’infanzia, un giorno come un altro. È il momento dell’uscita, e nel giro di un quarto d’ora mamme, papà, nonne e babysitter si affacciano alla porta dell’aula; i bimbi sono seduti in cerchio, e quando arriva il loro turno si alzano, vanno loro incontro, salutano la maestra, e corrono verso l’uscita.

Oggi però è diverso, dev’essere successo qualcosa: quando entro nell’aula, mia figlia Margherita, col faccino preoccupato, sta guardando la maestra che parla con un suo compagno. Non mi va di interrompere e aspetto. Capisco così che il bambino a cui parla la maestra ha appena tirato un bicchiere (fortunatamente di plastica) in testa a un’altra bambina, che è seduta lì vicino, con gli occhioni pieni di lacrime e un bel segno rosso sulla fronte.

Sergio (nome di fantasia), sembra piuttosto arrabbiato, col visetto imbronciato e lo sguardo rivolto a terra. Si appoggia alla mamma, e da principio mi sembra quasi mortificato. Ma quando la maestra gli fa notare che con il suo gesto, oltre ad aver trasgredito a una regola, ha fatto male alla compagna, e dovrebbe chiederle scusa, alza gli occhi e risponde con voce sicura: “No!”

A questo punto interviene la mamma … ma invece di parlare al figlio, si rivolge alla maestra: “insomma, mio figlio è fatto così, non c’è niente da fare! È tanto buono ma se gli saltano i cinque minuti…”. Poi guarda la bambina e le dice: “Ormai sono tre anni che lo conosci, non hai ancora capito che devi lasciarlo stare?”

Prende suo figlio per mano e se ne va.

Interrompo qui il racconto relativo a quel pomeriggio, vorrei soffermarmi sulla frase “mio figlio è fatto così!” che tante volte ho sentito pronunciare in questi anni, sia durante incontri formativi con gruppi di genitori, che nella mia vita di tutti i giorni, soprattutto sui cancelli delle scuole frequentate dalle mie figlie.

Cosa significa “mio figlio è fatto così!”? Cosa spinge un genitore a pronunciare queste parole? Quali i sentimenti, le intenzioni?

L’origine di questa frase potrebbe essere, e a volte è, un sentimento di profonda accettazione: i genitori devono imparare con il tempo a conoscere e ad accettare il proprio bambino, con i suoi pregi e i suoi difetti, rispettarne carattere e inclinazioni… lo sanno tutti! Su quale manuale non troviamo un’indicazione di questo genere? Giusto e sacrosanto.

Quando un figlio si sente accettato e amato così com’è dai propri genitori, e non perché raggiunge certi risultati, migliora la propria autostima, elemento fondamentale per la crescita. Però a volte si rischia, in nome dell’accettazione, di dare il proprio assenso a comportamenti che con la crescita hanno poco a che vedere.

Innanzitutto perché si fa confusione sul significato da dare alla parola ACCETTAZIONE.

Anche se a volte il confine è molto sottile, accettare, ascoltare, comprendere non significano giustificare. Che è proprio ciò che ha fatto la mamma di Sergio: ha giustificato l’azione del figlio; non la sua fatica a chiedere scusa, non la sua rabbia, ma il suo usare la forza e picchiare gli altri bambini quando “gli saltano i cinque minuti”: io lo accetto così com’è, e anche gli altri lo devono accettare, compreso chi si becca il suo bicchiere in fronte!

La mamma di Sergio non è sola in questa convinzione… ripenso a frasi come:

“Mio figlio guarda la tv tutto il pomeriggio? Sì, fa solo quello, o gioca con i videogiochi, ma sai, purtroppo non ha la passione per la lettura!”

“Lui è fatto così: quando vede una bambina più piccola non resiste: deve correre a tirarle i capelli, anche se non la conosce”

“Un fratellino? No, gliel’abbiamo chiesto ma dice che non lo vuole… peccato! A me e mio marito sarebbe piaciuto, ma non posso certo obbligarlo!”

“Ha voluto assolutamente vestirsi così; lo so che non è adatto a una bambina, ma lei (quattro anni, ndr) non è come sua sorella, ci tiene alla moda”

“La maestra dice che non dovremmo far vedere a Giorgio (tre anni, ndr) tanti combattimenti di Wrestling in TV, perché a scuola lui e i suoi compagni fanno a botte tutto il giorno. Ma cosa ci posso fare se gli piacciono tanto?”

“Ho dovuto mettere la TV in cucina perché senza cartoni mio figlio non mangia; cosa ci vuoi fare, è fatto così: il cibo proprio non gli interessa!”

“Caspita! Tuo figlio si rifà il letto? Che fortuna, la mia no” o  “Tu sei fortunata, perché le tue figlie sono brave”

È davvero solo questione di fortuna? I bambini sono come “gratta e vinci”?

“La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”, dice Tom Hanks-Forrest Gump nel un celebre film.

Seguendo il filo logico (logico?) di questo discorso, potremmo dire lo stesso per i figli: è questione di fortuna, quello che capita capita. L’importante è capire il figlio che ti è “capitato”, e accettarlo così com’è. Giusto? Sì … e no!

“Mio figlio è fatto così!” richiama a “io sono fatto così” che spesso chiude una discussione tra adulti. A me ha sempre dato fastidio quando qualcuno mi ha messo di fronte a questa affermazione, che suona come un ultimatum: prendere o lasciare. Mi ha sempre dato fastidio perché indica la non disponibilità dell’altro a cambiare, a usare del tempo per capire le mie ragioni, a fare un po’ di fatica, anche.

Ecco, la fatica. Penso stia qui il nocciolo del problema.

Educare è un lavoro appassionante ma faticoso, da ricominciare ogni giorno, come quello del contadino, che si reca nei campi tutte le mattine e tutte le mattine deve usare forze, intelligenza, esperienza, competenza, pazienza e cura, insieme alla speranza che il tempo lo aiuti ad ottenere un buon raccolto.

Ma pazienza e fatica non vanno molto di moda ultimamente, soprattutto tra gli adulti: tutto dev’essere “easy”, leggero, veloce, anzi immediato. Non c’è tempo! Neanche per i figli.

Quando un genitore rinuncia ad intervenire in alcune situazioni, più che dal “non ci posso fare niente” dichiarato sembra mosso da un “non ci devo/voglio fare niente”, e quella che viene sbandierata come accettazione sembra più un alibi per il disimpegno: meglio rimbrottare maestra e compagna, incapaci di accettare Sergio e i suoi lanci di bicchiere, che fare la fatica di insegnargli, giorno dopo giorno, a gestire i suoi “cinque minuti che saltano” in modo meno distruttivo.

La mamma di Sergio purtroppo non è l’unica: il disimpegno in educazione oggi sembra molto diffuso, paradossalmente non per ignoranza o mancanza di interesse, anzi. Pensiamo alle pubblicazioni sull’educazione dei figli, dalle riviste, ai manuali, alle trasmissioni televisive o radiofoniche, molto più numerose che in passato. Talmente numerose che a volte i genitori ci si perdono: spesso alla ricerca di ricette e formule magiche là dove a volte basterebbe il buon senso, ricevono moltissime informazioni, ma a volte non sanno come usarle, sono disorientati, nel vero senso della parola: privi di orientamento; e senza un orientamento, una direzione, un senso, anche validissimi principi e atteggiamenti relazionali, come l’ascolto e l’accettazione, vengono fraintesi e usati a sproposito.

A discapito dei bambini.


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di Paola Breseghello, counsellor, cultrice di scrittura autobiografica LUA, formatrice Kaloi

Sexting

Sono in aula, ho di fronte una ventina di ragazze e ragazzi di terza media.

E’ il secondo incontro del progetto Sicur@mente.  Faccio partire il  video, consapevole che la discussione si farà calda. Hot.

Si parla di sexting (sex-texting), lo scambio di messaggi e immagini sessualmente esplicite.

Un adolescente su tre li ha inviati, uno su due ne ha ricevuti. Il primo invio tra gli 11 e i 14 anni. Il 34% delle foto ricevute viene condivisa con altri, senza il consenso dell’interessato.
E’ il risultato di due indagini condotte da CREMIT e Pepita su un totale di 1800 ragazzi tra gli 11 e i 18 anni.

La scoperta dell’affettività, del proprio corpo e della sessualità è un passaggio naturale, determinante e bello della crescita. E’ importante poterne parlare in modo diretto, semplice, pulito, non colpevolizzante.

alberto-pellai

Alberto Pellai, psicoterapeuta e padre di quattro figli, nel libro Tutto troppo presto, l’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet fornisce un decalogo per l’educazione sessuale 2.0. Il primo punto è “non tirarsi indietro”. Sostiene che questa è la prima generazione di genitori e di educatori che non può permettersi di non parlare di sesso. (www.tuttotroppopresto.it)

Così, nella mia aula, il video scorre. https://www.youtube.com/watch?v=DwKgg35YbC4
Megan invia una foto intima ad un compagno di classe. Rientra in aula con sguardo timido e innamorato, guarda l’amato con un sorriso pulito. Presto si rende conto che la sua immagine sta girando tra i cellulari dei compagni e delle compagne di classe. I maschi le lanciano occhiate ammiccanti, biglietti provocanti, frasi di lascivi complimenti. Le femmine la guardano indignate, bisbigliano tra loro, serpeggia il disprezzo. Infine squilla il cellulare del professore, che riceve anche lui la foto. Megan è sempre più imbarazzata, umiliata, ferita. Fugge dalla classe.

Le risatine tra i miei alunni sono numerose, qualche gomitata tra vicini, sguardi abbassati di teste chine. Interrompo il video più volte per chiedere ai ragazzi: cosa ha fatto Megan? E’ illegale? Cosa ha fatto il ragazzo? E’ legale? Cosa avrebbe potuto fare?  E i compagni di scuola cosa hanno fatto? E’ legale? Cosa avrebbero potuto fare? E le amiche?

Si apre la questione: la differenza tra giudizio morale e legalità. E’ una differenza importante. Sono diverse responsabilità. Megan può essere stata imprudente nei confronti di se stessa, può avere “sbagliato” in base a scelte di valori.  Ma non ha fatto nulla di illegale. Ha fatto male solo a se stessa. Il suo innamorato, invece, ha compiuto un
reato grave. Oltre a “sbagliare” su scelte di valori (confidenzialità, lealtà, rispetto, intimità). Così i compagni che hanno ulteriormente divulgato l’immagine, senza fermare l’orrore.

Il giudizio dei ragazzi ondeggia, si muove. Molti partono da un rigidissimo “Se l’è cercata! E’ una t…”, nessuno cyberbullismoappoggia Megan.  Faticano a distinguere tra moralità e violenza. Peggio: un giudizio di immoralità giustifica la violenza. Assolvono chi “non ha fatto nulla ma ha solo ricevuto”. Riflettiamo su una diversa possibilità, la possibilità d’errore. Sulle differenze di genere. Sulle parole giusto-sbagliato. Non tengo la parola con grandi discorsi, li sollecito con alcune domande. “Quindi voi pensate che, se una ragazza ha una minigonna, se l’è cercata? Che, se l’è cercata, merita violenza?” oppure “Tu hai una sorella?”. Sono loro a fare il percorso. I ragazzi vacillano, si spostano, qualcuno dice “ha ragione, è vero!”.

Brevi articoli di legge citati nelle slide li aiutano ad orientarsi, a scegliere da che parte stare. Ci fermiamo su questa necessità: posizionarsi in modo riflessivo, non superficiale, è un atto di crescita fondamentale. Sulle slide appare anche Voltaire: non sono d’accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee. Che cosa ci può significare?

ragazzineNormalizzo la curiosità adolescenziale, l’errare e l’errore. Aggiungo “prima non sapevate; ora sapete. Ora potete evitare di farvi e fare del male…”. Accenno alla banalità del male, che è l’azione senza riflessione. Non è mio compito definire cosa sia “morale” in ambito sessuale. Mi soffermo su valori come intimità, dignità, privato, pubblico, sociale. Sul non anticipare, sul darsi tempo per crescere.

Allora, cosa si potrebbe fare? Lascio proporre loro idee, scopriamo insieme come auto-tutelarsi nella protezione dell’ immagine, del privato, dell’intimità, della reputazione.  Informo sui limiti legali (e di buon rispetto umano) nell’uso delle immagini altrui. I ragazzi sono attenti alle informazioni, vogliono sapere come fare bene.  Alcuni sono sinceramente stupefatti e dispiaciuti nello scoprire d’avere già compiuto azioni illegali. Qualcuno esclama “cavolo, non sapevo!”.
In quel clima di dialogo aperto e fluido, emerge che in quella scuola è avvenuto un episodio uguale. Girava  un video di cellulare in cellulare. La ragazzina protagonista s’è ritirata da scuola per la vergogna. Mi si stringe il cuore. Riconsiderano il giudizio su di lei e la loro stessa posizione.

Si arriva a parlare di chi sa, assiste e non fa niente. Niente per fermare, niente per avvisare, niente per sostenere.  Una ragazzo si sente nel giusto, dichiara con orgoglio “Io l’ho ricevuto ma l’ho cancellato, non l’ho fatto girare!”.  Gli dico “ottimo, bravo” poi lancio a tutti una domanda impertinente “vi sembra sufficiente?” .  Cammina, parla, discuti presento loro le tre scimmiette “non vedo, non sento, non parlo”: le conoscevano bene!  Sbilancio anche quell’ultima comoda certezza (un presunto simbolo di lealtà amicale) e concludo l’incontro con tre opposte, responsabili, scimmiette: io vedo, io sento, io parlo.
I ragazzi applaudono, alcuni si avvicinano prima di uscire, sussurrano “grazie”.

tre_scimmiette-713365

Sitografia:

http://www.cremit.it/public/2014/Report%20Iniziale%20sintesi%20partner.pdf

http://www.pepita.it/news/sexting-e-adolescenti-la-campagna-di-prevenzione-di-pepita

http://www.pepita.it/in-evidenza/online-il-manuale-contro-il-bullismo-sessuale

http://www.corriere.it/scuola/medie/14_ottobre_17/ragazzo-due-vittima-sexting-fc0debda-55fd-11e4-8d72-a992ad018e37.shtml

http://www.azzurro.it/it/informazioni-e-consigli/consigli/sexting/sexting-cosa-si-intende

http://www.tuttotroppopresto.it/

http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2015/educazione-sessuale-nativi-digitali-50204096065.shtml?refresh_ce-cp

http://www.slideshare.net/doxa_italia/osservatorio-adolescenti

http://www.sostenitori.info/13enne-costretta-a-spogliarsi-selfiesex-e-allarme/

https://www.youtube.com/watch?v=dGOIZ9ci2b8
https://www.youtube.com/watch?v=iLtY9FDI7pE

Il sexting coinvolge anche gli adulti (ce ne sarebbe da dire):

http://www.style.it/sex/seduzione/2014/11/26/sexting-le-dritte-e-i-trucchi-per-usarlo-al-meglio.aspx

http://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2014/02/17/sexting-app-migliori-per-iphone-android/

http://d.repubblica.it/amore-sesso/2013/04/05/news/sesso_psico_giochi-1593652/

 

 

 

Mio figlio è geloso

Mio figlio Matteo di 4 anni è diventato improvvisamente molto geloso della sorellina, adesso che ha 8 mesi ed ha cominciato a gattonare. I primi tempi non lo era, invece ora appena può la pizzica, la spinge e la fa cadere a terra, non tollera che lei tocchi i suoi giochi, dice a tutti che “Sara è brutta e cattiva e che lui la odia”! Se reagiamo con duri castighi, sembra quasi peggio, ma non possiamo non fare nulla. E se poi facesse davvero male alla piccola Sara? Così ultimamente non faccio altro che separarli, ma appena mi giro un secondo lui la tortura e lei urla! Siamo molto preoccupati della situazione. Cosa dobbiamo fare?

risponde Licia Coppo, pedagogista, formatrice Kaloi e counsellor

La fase che state vivendo è comune a molti genitori, soprattutto dopo che il primogenito vede arrivare un fratellino o una sorellina. Ci sono figli gelosi fin da subito, alcuni addirittura prima che nasca il secondo figlio.

Chi lo diventa, guarda caso, proprio verso l’età della vostra piccola, quando cioè il secondogenito inizia ad occupare maggiore presenza fisica e relazionale in famiglia.Immagino la piccola che gira per casa, tocca le sue cose, fa espressioni buffe a cui tutti sorridono divertiti. E il vostro Matteo che dentro di sé brucia come un cerino acceso!  La gelosia tra fratelli è fisiologica, non è una patologia. Quello che può diventare un problema è come viene gestita dai genitori: se sono troppo in ansia, prevengono e intervengono in ogni situazione per tutelare il  piccolo rimproverando duramente il fratello grande, questo certo non è funzionale!

Per due ragioni: la prima è che non si permette ai due fratelli di trovare la giusta misura della loro relazione, al piccolo di difendersi dagli attacchi del grande, al maggiore di imparare un modo corretto e adeguato di gestire il fratellino, provando a parlare ed a esprimere i bisogni anziché passare subito alle azioni e ‘alle mani’. Nel vostro caso, ricordate che Matteo non si comporta così con cattive intenzioni, per ‘vero odio’ verso la sorellina.

Semplicemente non sa verbalizzare la sua rabbia per i suoi giochi toccati, o la sua gelosia perché la sorellina è in braccio alla mamma. Per cui agisce, in modo istintivo e fisico. Pizzicandola, spingendola, facendole mille dispetti. Il vostro lavoro dovrebbe essere quello di un “traduttore emotivo”, che dà voce e spazio a quel sentimento senza reprimerlo, correggendo allo stesso tempo le azioni comportamentali inadeguate.

Vale la regola della doppia C.

Serve Comprensione per la fatica del figlio, ma Contenimento quando le sue azioni varcano il limite e pongono a serio rischio la sorellina.

E ora vediamo la seconda ragione per cui un’ansiosa tutela del secondogenito non è funzionale; perché si rischia di instaurare una spirale negativa: più il grande fa dispetti e tratta male la sorellina, più viene sgridato da voi perennemente arrabbiati con lui. L’equazione, nella mente di un bambino, è presto fatta: “io finisco sempre in castigo per colpa di mia sorella… starei molto meglio se non ci fosse!”. Ecco perché è bene evitare di incappare in dinamiche come questa. Separarli sempre non è utile. Invece aiutarli a giocare in modo positivo, per esempio valorizzando il grande nelle cose che fa e stando vicino alla piccola a cui dare dei compiti: lei può passare a lui dei pezzi da costruire, o la si può mandare gattonando a prendere un gioco da portare al fratello grande (così il toccare i suoi giochi è veicolato ad uno scopo positivo). Poi a volte, se portate via la piccola per dare un po’ di respiro a Matteo, dichiaratelo in modo scherzoso “Oggi mi porto dietro questa rompiscatole di Sara con me a fare la spesa, così tu giochi tranquillo con papà”. In modo che sia esplicitato un momento intenzionale di benefica separazione tra di loro, e non un gesto disperato di sopravvivenza!

Certamente dedicare un momento speciale ed esclusivo a Matteo può aiutarlo a sentire che, anche se c’è una sorellina, l’amore verso di lui non è cambiato. Se potete, in alcune occasioni, potreste sfruttare nonni o amici per andare al cinema soli con lui o a prendere un semplice gelato. Ma con moderazione e nella giusta misura. Va anche educato alla presenza della sorella. Nel mio lavoro incontro spesso genitori che, per praticità e poco tempo da dedicare alla costruzione del legame fraterno, li separano continuamente. Non insegnano ai figli a condividere gli oggetti e i giochi: a ognuno il proprio maxi-robot telecomandato, a ognuno il proprio tablet, a ognuno la propria stanza. E da grandi sembrano due estranei che vivono sotto lo stesso tetto!

Quindi vi consiglio di non separarli di continuo, ma di presidiare inizialmente i momenti di gioco tra di loro, e allontanatevi ogni tanto gradatamente, definendo prima un patto con Matteo “vado in cucina 10 minuti, voglio sentirvi giocare bene senza litigare”; quanto tornate e tutto è andato bene, date dei rinforzi positivi al grande. Se invece dopo 5 minuti già la piccola piange per l’ennesimo pizzico, non fatene un dramma! Correggete, ma senza interventi moraleggianti. Date di nuovo fiducia a Matteo e riprovate. A piccoli passi. E datevi tempo. Crescendo impareranno anche a giocare insieme, e vedrete che poco alla volta la gelosia lascerà spazio alla complicità positiva.

 

 

 

 

 

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