I bambini hanno bisogno di regole?

Echo-photoGentile Massimo, volevo condividere con te un momento di sconforto: nel corso pre-parto che sto seguendo è previsto anche un incontro con una psicologa per il rapporto madre-figlio. Ovviamente ha chiesto delle opinioni a chi, come me, aveva già bimbi a casa e quando ho espresso alcune idee del corso Genitori in Regola sono stata letteralmente attaccata e fatta passare per una madre non attenta ai bisogni del proprio figlio. Il concetto era che i capricci non esistono e che le regole non servono a nulla anzi! Che il bambino ha solo bisogni e che con le regole (figuriamoci le sanzioni…sembrava una parolaccia) noi lo mortifichiamo e ci disinteressiamo di lui… puoi immaginare il mio stato d’animo nell’esser così attaccata di fronte ad altre 20 persone. Comunque la riflessione che ne ho tratto, superato il disagio della situazione, è che essere una minoranza (anche educativa) è sempre scomodo e che le idee degli altri per quanto “urlate” non sono per forza le migliori o quelle con la verità in tasca. Ho quindi apprezzato ancora di più il tuo lavoro perché l’ho trovato non solo rispettoso degli altri e pacato ma soprattutto coraggiosamente svolto in un contesto culturale e lavorativo non favorevole. 

Grazie, Silvia

risponde Massimo Caccin, counsellor e formatore Kaloi

Prima reazione, a caldo: “Dimmi tu se una mamma in gravidanza deve essere trattata in questo modo!” Sì, perché sono convinto che quella che definiamo “Comunità Educante”, in tutte le sue articolazioni (compresi i corsi pre-parto), non dovrebbe giudicare ma essere di sostegno, di conferma e punto di riferimento per chi avrà il privilegio di accogliere, amare, educare e far crescere responsabilmente le generazioni future fin dai primi anni di vita. Fin dai primi vagiti. Ma non sempre succede. Fortunatamente, Silvia è una donna forte e strutturata, e l’episodio da lei descritto, pur spiacevole, non l’ha mandata completamente in tilt; però quello che è capitato a lei potrebbe capitare ad ognuno di noi, e in vari ambiti.

Dopo averle risposto in privato, continuo a riflettere. Emozioni e temi sollevati dalla sua mail sono molti e rilevanti. L’onda di repulsione provocata dalla “parolaccia” regole riflette la confusione, il disorientamento e il mal-orientamento nel mondo adulto.  Cercherò di mettere un po’ di ordine, sperando che le mie considerazioni possano servire a stimolare un pensiero che dilati l’orizzonte educativo piuttosto che restringerlo. Lungi da me la presunzione di spiegare tutto, non è possibile qui. L’argomento è troppo vasto.

Le Regole sono un argomento interessante ma “ostico”. Estremamente vicino alla vita delle persone: tutti vi siamo “immersi”, anche se non ne siamo consapevoli (un po’ come pesci nell’acqua). Le regole hanno a che fare con la nostra storia interiore, facile o difficile da raccontare, con ferite suturate o ancora aperte, con le esperienze vissute negli anni e la professione che svolgiamo.

Provate a chiedervi: “Quanto sono importanti per me le regole e il loro trasferimento ai figli per un’educazione sana e responsabile? Da 0 a 10, che importanza do a questo tema?” Io 11, forse.

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Se voi invece avete dei dubbi sulla necessità delle Regole e soprattutto su ciò che la mancata educazione alle regole comporta, andate a confrontarvi, serenamente e umilmente, sui comportamenti documentati dall’osservatorio quotidiano delle educatrici delle Scuole dell’Infanzia, degli insegnanti delle Scuole Primarie e Secondarie, di chi è deputato a mantenere l’Ordine Pubblico, o si sforza ogni giorno di far rispettare il Codice della Strada… avrete allora molti esempi delle conseguenze di una mancata trasmissione di regole sociali, dovuta a un fraintendimento: pensare che i figli (piccoli o grandi che siano) abbiano solo bisogni da soddisfare; anzi, che siano solo “agglomerati di bisogni”, e non serva loro, per crescere, anche una spina dorsale che li sostenga.

È un fraintendimento comune nella nostra società, in cui il “Codice Materno” ha sostituito il “Codice Paterno” nell’educazione dei figli. Mi spiego meglio: Codice Materno e Paterno non significano necessariamente “codice usato dalla mamma” e “codice usato dal papà”, indicano modi di essere. Modi di mettere in atto la relazione educativa, di amare i propri figli e operare perché diventino Cittadini del Mondo Autonomi, Responsabili e Agenti di Scelta per il bene di sé e degli altri. Le maiuscole non sono un errore ortografico.

family-webQuando uomini e donne educano i propri figli, scelgono di entrare in relazione con loro. Lo possono fare con l’ascolto, prestando attenzione alle emozioni, offrendo gesti di cura e protezione: chiamiamo questo Codice Materno, anche quando è il padre a utilizzarlo. A volte, invece, i genitori si centrano sull’azione. Si mettono in relazione con il figlio cercando di definire il problema, propongono un modello, incoraggiano l’autonomia, pongono limiti, regole e sostengono una direzione, nonostante il figlio batta i piedi. Chiamiamo questo Codice Paterno, anche quando è la madre ad attuarlo.

Ognuno di noi è naturalmente portato a relazionarsi prevalentemente con il Codice Materno o Paterno. Ma entrambi i Codici educativi hanno un valore essenziale, sono necessari. Entrambi contengono in sé una possibile deriva negativa, per eccesso o per difetto. L’assenza di cura e attenzioni è rischiosa quanto l’eccesso di cura e attenzioni. L’assenza di limiti, di autonomia, di direzione è rischiosa quanto un eccesso di regole, di prove di vita, di autonomie precoci, di costrizioni. L’educazione è questione di equilibrio, consapevolezza e scelta.

I Codici sono entrambi necessari, nella giusta misura e in misura diversa, a seconda dell’età del bambino: più è piccolo e più viene utilizzato il codice materno; ma quello che è opportuno con un neonato non lo è con un bambino di uno, cinque, dieci, quindici anni. L’utilizzo dei codici varia anche in base al numero dei figli: io ne ho tre. E non è la stessa cosa gestire una famiglia da tre persone o da cinque. Anche il numero ha il suo valore e il suo significato.

Ripeto: l’educazione è questione di equilibrio, consapevolezza e scelta.propositi-2012-equilibrio-152333_L

Basta guardasi intorno per capire che nella nostra società questo equilibrio è alquanto precario, ed è il Codice Materno ad aver preso il sopravvento: tornate alla mail di Silvia, quando scrive che “essere una minoranza (anche educativa) è sempre scomodo”.

Le Regole sono scomode per chi non le rispetta, per chi non accetta di mettersi sulla strada della riflessione, di un possibile cambiamento, perché comporta fatica.

E comporta fatica – la fatica educativa – anche quando le poniamo come genitori!

Anche Amare è “fatica”. Perché devi sempre chiederti cos’è il “bene” per l’altro e per te, e poi scegliere.

Scegliere anche di andare contro corrente.

Scegliere anche di creare una frustrazione a un figlio perché lui quel “bene” non ce l’ha ancora chiaro. Infatti gli adulti siamo noi, la “Comunità Educante” siamo noi.

L’Amore “accomodante” non risolve tutti i problemi della vita; l’Amore accondiscendente, sempre e comunque, fa danni. L’Amore è “pieno” quando è Responsabile. E permette all’altro di crescere.

Il rispetto è un profumo

di Claudio Cernesi, counsellor e formatore Kaloi, docente di Relazioni interculturali presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

Nel 1986 mi trovavo nella Casamance Senegalese, ai confini con la Guinea Bissau.

Allora era buona norma avvisare prima di arrivare in un villaggio guineiano. In caso contrario si era certi che i ragazzini, alla vista di un uomo bianco, avrebbero dato prova della loro abilità nel centrare un bersaglio con le fionde (abitudine acquisita al termine del colonialismo portoghese).

Un pomeriggio mi dimenticai di avvisare e dovetti girare la moto in fretta e furia e darmi ad una fuga precipitosa. La mira di quei ragazzi era veramente eccellente.

Il pregiudizio e lo stereotipo sono la via più semplice per farsi una prima idea dell’altro. Se l’altro è diverso, la risposta più ancestrale è la diffidenza. Esperienze negative (vere o percepite) trasformano la diffidenza in paura. Diffidenza e paura generano difesa, distanza, rifiuto fino al respingimento e all’allontanamento violento. La differenza diventa stigma, una condanna senza appello e senza distinzioni.

Il rischio di ogni risposta ancestrale è quello di sbagliarsi grossolanamente. Non ero portoghese ed ero lì per aiutare. L’immagine precostituita dell’altro può essere molto lontana dal vero ed essere controproducente.

Un modo per andare oltre il pregiudizio verso i bianchi e rendere possibile l’incontro era avvisare: un verbo che racchiude un processo. Per avvisare è necessario riflettere, progettare, programmare, tenere conto di sé e dell’altro, comunicare, negoziare, verificare il reciproco consenso, costruire una relazione di fiducia, preparare il risultato dell’incontro e della relazione.  Una buona sintesi dell’approccio interculturale.

Un’attività che proponevo nelle scuole elementari di Modena è quella del nuovo compagno di banco.

  • Domani arriva un nuovo alunno. Chi lo vuole vicino di banco?
  • Da dove arriva?
  • Dal Marocco (qualcuno dice sì)
  • Dall’Albania (quasi tutti dicono no)
  • Dagli Stati Uniti (tutti dicono sì)
  • Perché dite tutti sì allo statunitense?
  • Perché è come noi. Perché non è extracomunitario. Non ne abbiamo paura.
  • Capisco, intanto un chiarimento: extracomunitario vuol dire che non è della Comunità Economica Europea. Quindi anche uno statunitense è un extracomunitario. Ma parliamo della vostra paura…

Iniziavamo così a lavorare sui pregiudizi, riconoscendo innanzitutto la legittimità della paura. Un’emozione non è né buona né cattiva, semplicemente è. Si è formata in una storia, emerge dentro di noi. In quelle classi si respirava la presenza di una parola adulta che veniva ascoltata dai ragazzi perché anche la loro parola veniva ascoltata. Le porte dell’apprendimento si aprono dall’interno. Chi si sente accettato come persona, può aprirsi al dubbio verso le sue convinzioni, i suoi comportamenti. Chi non si sente accettato e percepisce una forzatura al cambiamento, alza gli scudi della resistenza. Per questo la via maestra dell’educazione è accogliere i ragazzi e le persone, avvicinando pensieri ed emozioni con un dialogo non giudicante. In questo modo è possibile costruire quel clima umano in cui può avvenire lo scambio delle reciproche differenze. Tommaso ha le orecchie a sventola, Mirko è basso, Adisa ha la pelle nera, Amhed parla una lingua strana, Carmelo ha un altro accento, il fratello di Tina è omosessuale, Kwame ha i capelli con un ciuffo, Daniele è un ragazzo down, Naila porta il velo, Mario non ha lo smartphone.

L’esperienza in centinaia di scuole mi ha fatto incontrare classi molto difficili e altre accoglienti, presenti, vivaci, curiose. Stessa provenienza sociale, analoga percentuale di differenze, stesso plesso, a volte stesso corridoio. Com’è possibile? La mia osservazione e diverse ricerche portano a dire che la differenza è generata dal modo in cui l’adulto costruisce la relazione, convergendo su due aspetti precisi: una relazione di fiducia e stima e la condivisione di un piano morale. Nelle classi che funzionano si avverte profumo di rispetto.

Il rispetto è un profumo: o lo senti o non c’è dice un proverbio dei Pulaar, nomadi del Sahel. Il rispetto e l’ascolto si apprendono nel rispetto e nell’ascolto. Attraverso questo è possibile condividere un quadro di regole che orienta il gruppo.  Una regola presidia un valore. L’interiorizzazione della regola porta a fare proprio il valore difeso, costruendo una morale di gruppo. Così come non derido Tommaso per le sue orecchie, non derido Adisa per il colore della sua pelle, Amhed perché parla una lingua strana, non derido Tina per l’omessualità del fratello. Fare educazione interculturale è lavorare sui pregiudizi (tutti) per ridurre lo stigma delle differenze (tutte).

Approccio alla persona, pedagogia partecipativa ed educazione interculturale sono un’unica danza per creare un nuovo modo di stare insieme nella scuola e nella società.

È nel fare insieme che le persone si avvicinano e si scoprono facendo cadere steccati e barriere, costituendo gli spazi comuni di una nuova cittadinanza.

 

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La via semplice dell’incontro

di Claudio Cernesi, counsellor e formatore Kaloi

È aprile dello scorso anno, sto per iniziare un laboratorio di educazione interculturale in una quinta elementare in provincia di Ferrara.

Come sempre, mi chiedo chi ci sarà oltre quella porta. Come sempre, i bambini si chiedono chi entrerà da quella porta. La maestra mi accoglie e lascia che sia io a prendere contatto con la classe.  Non dico nulla per qualche minuto, semplicemente guardo e mi lascio guardare. È un inizio tranquillo, di occhi ed emozioni. Vedo visi curiosi, sento qualche risata, noto qualche sguardo timido e smarrito. Due bambine con la pelle un po’ scura sono vestite in modo molto colorato, mi scrutano attente. Un bambino di pelle nera tiene il mento appoggiato alle braccia incrociate sul banco. È John. I suoi occhi mi fissano intensamente. Lascio entrare in me quello sguardo, lascio entrare le domande. Domande aperte di occhi trasparenti.

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Narro la storia del mio avere casa in un villaggio africano, mostrando le immagini di quei mondi lontani da qua. La casa è stata costruita per me, per invitarmi a tornare, donata dagli abitanti del villaggio come segno e simbolo del legame che ci unisce in una amicizia profonda. Una capanna a cui penso con piacere, orgoglio, riconoscenza, affetto. La mia casa, là. Gli occhi di John mutano espressione. Giro tra i banchi per dare a tutti la mano, lui mi tende subito la sua. Ci sorridiamo, ci riconosciamo.

Termino le prime due ore e la maestra mi offre un caffè. È felicemente stupefatta. Mi dice che John è arrivato da appena due mesi e non aveva mai aperto bocca prima, rifiutandosi perfino di dire il suo nome. Aggiunge: – Oggi invece si è presentato,  ha commentato le diapositive,  è venuto da lei a offrirle un po’ della sua merenda con un sorriso grande così. Ho visto che avete parlato, cosa vi siete detti?

Le ho raccontato lo scambio semplice e naturale con John. Io ho chiesto a lui della sua famiglia, lui ha chiesto a me come mi sono trovato in Africa, cosa amo mangiare in Senegal, cosa mi piace fare.

Ho chiesto qual’è la lingua di sua madre e se poteva dirmi alcune parole, ho provato a ripeterle, abbiamo riso della mia difficoltà di pronuncia (lui mi correggeva pazientemente) e gli ho chiesto di salutarmi la sua famiglia.

Mam SiniUn incontro semplice, uno scambio semplice. Un’apertura resa possibile dal clima creato in classe, condizione perché il bambino si sentisse accettato e riconosciuto. I bambini hanno bisogno di sentirsi accolti, sia che siano di Ferrara o provengano dal Ghana. Solo così si aprono con fiducia. Per aprirsi all’altro occorre sentirsi sicuri, non temere di essere presi in giro, derisi, giudicati, svalutati, etichettati, collocati in categorie precostituite. Non è necessario essere andati in Africa per riuscire a fare questo. Ognuno di noi ha vissuto l’esperienza di doversi inserire in un ambiente nuovo, sentendosi diverso o un pesce fuor d’acqua: una festa in cui tutti si conoscono ma non si conosce nessuno, un nuovo ambiente di lavoro, il primo giorno in un villaggio vacanze ecc.  Ognuno di noi può accedere alla propria esperienza di straniero e di accoglienza. Come mi sono sentito? Come sono stato accolto? Cosa mi ha aiutato? Quali gesti? Quali parole?

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Sarebbe sufficiente rivivere la propria esperienza, riconoscerla, restituirla. Se mettiamo la nostra persona nei protocolli di accoglienza questi vivranno, palpitanti di calore umano. L’incontro avverrà. In caso contrario, i protocolli scolastici sono solo percorsi burocratici freddi, senza risultato. Tutti i bambini, tutte le persone sanno riconoscere il valore di un sorriso, di uno sguardo attento e non indagatore. Per creare una relazione collaborativa, noi adulti abbiamo bisogno dei bambini come loro di noi. Ogni bambino desidera aiutarci se ci sente vicini. Risolvere il problema dei bambini stranieri a scuola è risolvere il problema della relazione tra adulti e bambini. Da persona a persona.

Per saperne di più … www.teranga.it

E continuate a seguirci nei prossimi articoli sull’educazione interculturale…

Autunno: accompagnare l’ambientamento al “nido” o alla scuola dell’infanzia

di Giacoma Di Marco, pedagogista, formatrice Kaloi e counsellor

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Autunno, la scuola è ricominciata.

La stagione in cui per alcune migliaia di bambini è iniziato un periodo davvero impegnativo, fatto di nuove conoscenze, ambienti nuovi e nuove maestre: è quello che succede anche a tutti i piccoli che per la prima volta iniziano a frequentare l’asilo nido o la scuola per l’infanzia.

Nel corso degli anni portare il bambino al nido e/o alla scuola dell’infanzia è diventata una opportunità per le famiglie e non solo una necessità: queste strutture sono luoghi educativi in cui i bambini hanno la possibilità di giocare insieme ad altri bambini, confrontarsi con altri adulti, imparare a cooperare e instaurare rapporti affettivi e di amicizia.

L’approccio iniziale a questa esperienza è definita “ambientamento”, termine che meglio specifica il significato di questo momento. L’ambientamento è caratterizzato da tutte quelle attività che mirano a favorire l’ingresso all’asilo nido del bambino, rispettando i suoi tempi e aiutandolo ad affrontare il cambiamento che sta per avvenire nella sua quotidianità. È un’esperienza che il bambino affronta con la presenza e il sostegno di una figura di riferimento, che spesso è mamma o papà.

A toddler holding his mother's hand as he goes to daycare.
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La comunità riconosce infatti nella famiglia un ruolo attivo, di interlocutore e non solo di fruitore del servizio, e valorizza l’importanza del legame di attaccamento alle figure familiari, legame che costituisce il “sistema motivazionale centrale nei primi anni di vita“. Inoltre, offre al bambino la possibilità di mantenere un rapporto di vicinanza con le persone che gli assicurano protezione,”permettendogli di sentirsi sicuro anche quando queste figure si allontanano nella certezza del ritorno” (M. Ammanniti).

Teoricamente parlando, l’intervento educativo si esplica nei diversi contesti di appartenenza (sistema-famiglia e sistema-nido), tra loro reciprocamente interdipendenti ed influenzanti. Secondo la teoria sistemico relazionale ecologica di Bronfenbrenner, il bambino agisce in tali contesti-sistemi portando le proprie competenze ed esperienze e ricevendone stimoli.

All’interno dell’asilo nido (ma anche alla scuola dell’infanzia) si lavora molto per rendere il momento dell’ambientamento un periodo ben organizzato e le “maestre” si impegnano a dare il massimo della loro presenza, per aiutare i genitori e i bambini a viverlo serenamente e a sentirsi accolti nei loro bisogni.

mamma-bambino-al-nidoL’attenzione dell’educatrice è centrata sul benessere del bambino e su come reagisce ai vari momenti dell’ambientamento; allo stesso modo, l’insegnante ha cura di creare una buona relazione con la figura di riferimento del bambino e di sostenerla e aiutarla, e, se non è pronta alla separazione dal proprio bambino, a prendere consapevolezza della fatica che entrambi sono chiamati a fronteggiare.

Talvolta le famiglie si lamentano per il tempo che viene richiesto loro per inserire il proprio bimbo all’interno della struttura, considerandolo eccessivo; l’insegnante spiega e fa presente perché si richiedono due settimane di tempo per l’ambientamento, ma è anche disponibile ad accettare dei cambiamenti nella propria organizzazione, dopo aver conosciuto e osservato il bambino. Questo per tutelare il bambino ma anche per ascoltare il punto di vista dei genitori, che in situazione, osservando le difficoltà che il proprio bimbo deve sostenere, cercano e trovano soluzioni adeguate sia per i loro tempi di lavoro sia per il loro piccolo, facendo per esempio continuare l’ambientamento ai nonni che se ne prendono cura quando sta poco bene.

Quando un genitore prende consapevolezza della fatica del proprio bambino e decide di aspettare a separarsi da lui, prendendosi del tempo (per sé e per il figlio), spesso tutto si acquieta e si risolve in poche giornate: la serenità della propria figura di riferimento permette al bambino di nutrire fiducia in un ambiente e in persone che ancora conosce poco.

losbrogliamente stefania tedesco storie 0-3Una delle funzioni dell’insegnante è proprio quella di stabilire con la famiglia una relazione basata sulla fiducia, che non può essere considerata un punto di partenza ma un risultato da raggiungere. Le componenti sulle quali questa si costruisce riguardano non solo gli aspetti relazionali, ma anche gli spazi di partecipazione offerti alle famiglie e l’informazione costante e puntuale sugli aspetti organizzativi. Un clima relazionale positivo, unito alla conoscenza del servizio come luogo di promozione di cultura dell’infanzia, sviluppa nel genitore l’idea di un posto pensato e realizzato per il benessere del bambino.

Rendere familiare l’ambiente alla coppia adulto-bambino è molto importante; ciò può essere realizzato sia osservando ed assumendo le abitudini e lo stile relazionale del genitore e del bambino, sia creando nei momenti di accoglienza e separazione dei rituali che rassicurino entrambi. Inoltre l’osservazione dello stile relazionale che caratterizza la coppia genitore-bambino permette all’insegnante di riconoscere i sentimenti agiti e, assumendo il punto di vista del genitore, di comprendere meglio i suoi bisogni.

Il tempo diventa un elemento indispensabile per imparare a conoscere la vita dell’asilo nido (come della scuola dell’infanzia), con le sue routines, gli ambienti e le persone che lo animano.

Bibliografia:

Ammanniti, a cura di, Attaccamento e rapporto di coppia, Ed. Raffaello Cortina, 1995

Bronfenbrenner, The Ecology of Human Development. Experiments by Nature and Design. Cambridge: Harvard University Press, 1979 (tr. it. Ecologia dello sviluppo umano, Bologna, Il Mulino, 1996)

Decalogo per un buon anno scolastico

di Licia Coppo, pedagogista, formatrice Kaloi e counsellor

Disegni-Autunno-da-ColorareNon a caso la scuola inizia a settembre. Credo non ci sia mese più adatto: un giorno fa caldo, il giorno dopo sferza un vento gelido, una mattina piove, un’altra c’è il sole. L’autunno è mutevole tanto quanto sono ambivalenti i sentimenti che accompagnano l’inizio delle lezioni. I genitori alternano un vero e proprio entusiasmo da stadio, comprensibile dopo una lunga estate di acrobatici incastri (soprattutto per chi ha figli piccoli), alla preoccupazione per la ripresa di ritmi frenetici, compiti e studio (soprattutto per chi invece ha figli più grandi); e poi i soliti dubbi: “chissà come sarà la nuova maestra?”, “avremo scelto la scuola giusta?”, “speriamo che quest’anno studi di più”, “ci saranno dei ripetenti?”, e chi più ne ha più ne metta. Ormai, a quanto pare, a scuola ci vanno anche i genitori.

Dal canto loro, gli insegnanti non scherzano, quanto a schizofrenia emotiva: c’è voglia di ripresa, l’estate ha caricato di nuove energie, ma allo stesso tempo ci sono ‘i mal di pancia’ del primo giorno di scuola, che accompagnano per tutta la vita la professione di docente. Ci sono nuove relazioni da costruire, quest’anno ulteriori cambiamenti legislativi e burocratici.

Group of happy children lying on green grass outdoors in spring park

E poi ci sono loro, i veri protagonisti: bambini e ragazzi che hanno ancora nel cuore il profumo del mare e il sapore del tempo libero, e allo stesso tempo voglia di rivedere i compagni, gli amici di altre classi, qualcuno anche la maestra o i professori. Sotto sotto, qualche studente desidera tornare a sentirsi impegnato, a imparare, a conoscere cose nuove (anche se nessuno lo ammetterebbe mai!).

Dentro questa ambivalenza, anche salutare, cosa possiamo fare perché il nuovo anno scolastico riprenda al meglio? E perché prosegua positivamente? Bambini e ragazzi fanno già la loro parte, andando a scuola.

Le carte giuste se le devono giocare gli adulti. Sì, perché insegnanti e genitori hanno un enorme potere: in base a come gestiscono il loro ruolo nella vicenda, possono influenzarne l’esito. Potrebbero contribuire a far vivere un ottimo o un pessimo anno scolastico al loro figlio/alunno.

Vediamo allora un DECALOGO rivolto a insegnanti e genitori:

  1. INSEGNANTI: iniziate con gradualità, ponendo attenzione soprattutto nei primi mesi a ‘porre le buone basi’ delle dinamiche relazionali. E questo non vale solo per chi insegna in una prima: ogni anno i bambini si ritrovano dopo l’estate e devono ri-misurarsi nella loro capacità di stare in gruppo. Qualche ritardo sul programma si recupera, le lacune relazionali sono ben più difficili da rattoppare.
  2. GENITORI: siate ottimisti e felici dell’inizio della scuola! Non solo perché vi “liberate” dei figli, ma per passare loro utili messaggi: “è bello imparare”, “la scuola è fondamentale”, “le tue insegnanti sono importanti per me e mi fido di loro”. Incoraggiateli a credere nell’istituzione Scuola, e non caricateli di mille attività sportive o extrascolastiche. Lo sport o la musica fanno bene, se scelte e vissute con serenità. L’overload di impegni non giova a nessuno!
  3. INSEGNANTI: fate di tutto per accogliere e coinvolgere anche i genitori nella vita scolastica dei loro figli. Quei pochi colloqui all’anno (tra l’altro in quell’arena infernale che si crea alle scuole medie e superiori, che demotiverebbe anche un monaco tibetano) non sono sufficienti per costruire una vera collaborazione. Un po’ di creatività e flessibilità a scuola non guasterebbero. Un po’ di pregiudizio positivo verso le famiglie aiuterebbe. Lo so, è dura. D’altronde, avete scelto il secondo mestiere più difficile al mondo (il primo è quello del genitore!)
  4. GENITORI: siate presenti e collaborativi con gli insegnanti. Andate almeno al primo colloquio dell’anno, alla riunione di presentazione dei progetti. Sono momenti importanti! Se c’è un problema in classe, parlatene con gli insegnanti, non con l’obiettivo di giustificare o iper-tutelare vostro figlio, ma per capire, per risolverlo insieme. Siate pregiudizialmente positivi verso gli insegnanti dei vostri figli! E condividete con loro i fatti salienti della vostra vita familiare quando andate al colloquio: ogni bambini, ogni ragazzo a scuola porta tutto sé stesso…
  5. INSEGNANTI: la Scuola deve, prima di ogni cosa, appassionare e trasmettere il piacere di apprendere. Siate creativi, trovate modi nuovi e divertenti per insegnare. Il web è ormai ricco di idee e possibilità. Più laboratori, più esperienza, meno nozioni. Non fermatevi alla cattedra, non difendetevi dietro alla burocrazia e ai programmi: sono solo dei confini, non delle catene. Il cambiamento è faticoso, ma poi gratificaClasse
  6. GENITORI: fate studiare i vostri figli con impegno, fate svolgere loro i compiti assegnati; senza trasformarvi in ‘assistenti alla scrivania’; meglio un 7 guadagnato studiando in autonomia, che un 9 sudato dopo ore di discussioni. Però presidiate la loro vita scolastica, non minimizzate il loro lavoro. E non giustificateli mai! Neanche quando i compiti vi sembrano troppi o assurdi. Se c’è un problema parlatene coi docenti. Se il carico scolastico o di compiti vi pare eccessivo, confrontatevi prima con gli altri genitori, poi parlatene coi docenti. Non screditate l’insegnante o la Scuola. Non fa bene a nessuno: gli adulti che si screditano a vicenda perdono di credibilità.
  7. INSEGNANTI: date spazio e attenzione tutto l’anno alla dimensione emotiva e affettiva dei vostri alunni. Non si impara solo con la testa: quando il ‘cuore’ e ‘la pancia’ stanno bene, allora anche la testa funziona! In alcune scuole ogni lunedì mattina i bambini siedono in cerchio per un’ora a fare il “bollettino delle emozioni”, raccontandosi le vicende del weekend; perdita di tempo? Niente affatto, è un prezioso esercizio di ascolto per i bambini. E rafforza la fiducia nel gruppo. Coi ragazzi più grandi, attivate più spesso ‘discussioni di gruppo’ sui fatti di cronaca o su problematiche del gruppo classe. L’educazione al pensiero morale è un compito della scuola.
  8. GENITORI: non chiedete ai vostri figli solo “cosa hai fatto a scuola?”, ma anche “come stai a scuola?”. Se vostro figlio ha una difficoltà relazionale in classe, se non riesce a inserirsi, se è vittima di derisioni, non alzate subito gli scudi per proteggerlo. Cercate di capire. Provate a dargli strategie e suggerimenti. Parlatene con gli altri genitori. Coi docenti. Se vi dicono che è lui a fare il prepotente, o che a scuola è indisciplinato, non pensiate di risolvere tutto solo con un castigo (anche se serve, badate bene!!). Cercate di capire. Fatevi aiutare dai docenti o da altre figure pedagogiche. Magari anche dall’allenatore sportivo, perché no?
  9. INSEGNANTI: collaborate positivamente coi colleghi. Le nicchie di autoreferenzialità sono il male della scuola di oggi! Trovate strategie per auto-motivarvi: un corso di formazione, libri e letture che vi tengano sempre aggiornati, attività pomeridiane che vi ‘carichino’. Il vostro è un lavoro ad alta energia relazionale, dovete averne tanta per i vostri alunni. Cercate intenzionalmente di avere sempre le pile cariche!
  10. GENITORI: create una rete sana coi genitori della classe di vostro figlio. La figura del rappresentante di classe serve anche a questo. Parlate tra di voi! Evitate i gruppi whatsapp per fare il muro del pianto o “l’incavolatoio” di gruppo. Usateli piuttosto per socializzare tra voi in modo sano, cosa che può fare bene anche ai vostri figli. Magari per darvi delle strategie comuni di tipo educativo, ad esempio “decidiamo tutti di non far portare i cellulari in gita?”. Generalmente quando si crea un bel gruppo di genitori della classe, anche il gruppo classe degli alunni è più positivo. Sarà un caso?

E allora buon inizio e buon proseguimento, con una citazione che speriamo vi accompagni nell’anno!

“Il vero cuore della Scuola è fatto di ore di lezione che possono essere avventure, incontri, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Quello che resta della Scuola è la bellezza dell’ora di lezione.”

Massimo Recalcati, “L’ora di lezione”- Einaudi

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Viaggio a Singapore

di Maria Cristina Toso, insegnante, counsellor professionista accreditata CNCP, formatrice Kaloi

A fine marzo ho avuto la fortuna di intraprendere un viaggio di otto giorni tra l’isola di Puket e Singapore.

L’opportunità – colta al volo – mi ha sorpresa, insieme alla meraviglia e allo stupore di aver potuto godere di un viaggio nel bel mezzo di un anno lavorativo.

Pochi ma intensi, i giorni a Singapore.

Rimango basita quando, atterrata in aeroporto, il mio sguardo si posa su giardini pensili e aiuole di orchidee. Il silenzio pervade corridoi e sale d’aspetto: neppure lo scorrere delle valigie si percepisce. Un manto di moquette su tutto il pavimento rende insonorizzato l’ambiente, mi sembra quasi di essere entrata in un paese soprannaturale.

Le persone che si prestano ai controlli minuziosi, in fila, ordinate, né un passo in più né in meno, posizionate davanti alla telecamera pronte per la foto segnaletica, in un silenzio interrotto solo dal suono improvviso dei metaldetector. Contrastanti sensazioni mi pervadono, tra sgomento e timore che da lì a poco succeda qualcosa di irreparabile.

Finalmente, all’uscita dell’aeroporto, un pullman ad aspettarci; al di là di una linea gialla disegnata a terra, cinque o sei persone fumano.

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Inizio ad accorgermi di come qui le persone rispettino limiti e regole per il benessere altrui. E questa nuova consapevolezza mi procura una sensazione di gioia: comincio ad abbassare la guardia, a poco a poco mi rendo conto della sicurezza che pervade un Paese a me sconosciuto, ma con un forte senso civico e un grande rispetto per l’ambiente e le persone che lo abitano.

Lungo le strade il verde è rigoglioso, giardini e parchi abbondano, i mezzi pubblici sono dappertutto.

Anche se difficilmente si possono trovare cestini lungo le strade, i singaporiani sono persone molto attente alla pulizia e all’ordine della propria città: c’è il divieto assoluto di gettare a terra qualsiasi tipo di rifiuto.

Torno per un momento con il pensiero alle “regole e trasgressioni definite e condivise” del percorso formativo da poco terminato con un gruppo di genitori: porre limiti e regole non è poi così male, quando permette alle persone di godere del proprio impegno.

A Singapore le leggi vengono rispettate e alcuni divieti sono diventati famosi, primo tra tutti quello di masticare (e quindi di vendere!) gomme da masticare: trasgredire  questa legge porta a multe salatissime, cosi come gettare la carta per terra, attraversare dove non ci sono le strisce pedonali e calpestare le aiuole.

Essere multati due volte per lo stesso motivo può far passare una notte in prigione, così come essere recidivi nel gettare carte per terra può portare a dover pulire per un’intera giornata le strade della città.

Forse ai nostri occhi alcune leggi sembrano esagerate, ma non è certo un caso che la città Stato di Singapore sia una delle poche ad avere un tasso di criminalità pari a zero.

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A primo impatto può sembrare una fredda, con enormi grattacieli finanziari, centri commerciali e cielo costantemente grigio, ma in realtà è una città viva, grazie ai suoi cittadini che hanno una vitalità incredibile: eleganti e sempre con il sorriso, a qualsiasi ora del giorno e della notte, quando locali, discoteche e ristoranti si animano di luci, colori, odori e allegria, il vero punto di forza della città.

Meraviglioso. Sembra quasi un film!

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Una popolazione che pensa al benessere di tutti e alla prevenzione al disagio.

Cosa mi rimane….? Un sogno.

Poter accompagnare mia figlia a vivere un domani intriso di rispetto, con altri figli e con altri genitori, condividendo regole e ponendo limiti. Se è vero che l’educazione non s’improvvisa, ma inizia da scelte responsabili e coraggiose, non basta un singolo genitore che educa.

C’è bisogno di una comunità che si coordini, che condivida e si muova per il benessere di tutti.

In vacanza con i bambini. Un viaggio è un viaggio

Le vacanze si avvicinano, che meraviglia! Eppure sono già in ansia per il viaggio fino in Puglia (abitiamo in Veneto). Ho 2 figli di 4 e 7 anni, in macchina passano il tempo a litigare o a lamentarsi. Un incubo. Mi può dare qualche consiglio?

Katia

risponde Manuela Zorzi, psicologa e formatrice Kaloi

Stiamo scendendo in auto dalle colline dove viviamo, lungo strade con curve e tornanti, quando mia figlia di 7 anni  avverte la solita nausea da mal d’auto e inizia a lamentarsi. Le dico “Cerca di guardare la strada, avanti;  segui la direzione delle curve! Se continui a guardare in giro è peggio!” Giulia risponde tranquilla: “Mamma, il viaggio è un viaggio e se è un viaggio bisogna guardare fuori!”

È stato come se mi avesse letto nel pensiero e avesse saputo che, proprio in quei giorni, cercavo un titolo per parlare dei viaggi con i bambini in auto.

Sempre più spesso i genitori che acquistano un’auto nuova chiedono che si possano aggiungere lettori dvd o  monitor per far vedere film o cartoni ai bambini durante i “lunghi” viaggi, oppure partono da casa assicurandosi  di non aver dimenticato tablet, nintendo e altri dispositivi elettronici per intrattenere i più piccoli durante gli spostamenti.

L’ansia sale dopo il primo “Papà, mamma, quando arriviamo?”, due chilometri dopo la partenza. E  i genitori a chiedersi “Come affronteremo i prossimi 150/300/900…? Possibile che non si riesca a fare un viaggio tranquilli?”

Ebbene riflettiamo su questo fenomeno cercando di capire perché accade e cosa fare.

Parliamo di viaggi fatti in orario diurno, di notte il problema non si pone, se i bambini dormono.

Dal punto di vista di un bambino affrontare un viaggio significa stare seduto fermo per una quantità indefinita di tempo, significa avere una visuale limitata dallo schienale dei sedili anteriori, significa avere un ruolo passivo rispetto all’organizzazione e alle tempistiche, il tutto probabilmente condito dal nervosismo dei genitori  intenti a concentrarsi sul tragitto e sulle decisioni da prendere, piuttosto che parlare con lui. La noia è in agguato ed è decisamente un sentimento poco amato dai bambini, come dalla maggior parte degli adulti.

Dal punto di vista dei genitori al viaggio appartengono aspetti diversi,  ambivalenti: finalmente si parte per la vacanza desiderata, c’è la voglia e la curiosità di conoscere un posto nuovo o semplicemente di sperimentare svago e relax, il bisogno di staccare dal lavoro e dallo stress: una serie di aspettative positive. D’altronde è spesso presente l’ansia per il viaggio (traffico, pericoli, costi, caldo, freddo, incertezza sulla strada da percorrere, lingua straniera, fame, sete, sonno) e per l’organizzazione  (aver preso tutto il necessario, decidere le soste ecc.). Uno stato d’animo che può passare dall’euforico al preoccupato e richiede ai genitori uno sforzo di concentrazione e attenzione.  L’ultima cosa che vorrebbero  è ascoltare le lamentele o i litigi de i figli seduti sui sedili posteriori.

Come intervenire allora per rendere i viaggi in auto più positivi per tutti?

Le cose da fare, una volta tenuto conto dei bisogni fisiologici e fisici dei bambini  (muoversi, andare in bagno, mangiare, dormire) sono due e riguardano la soddisfazione di bisogni psicologici: essere ascoltati, non annoiarsi ed essere motivati per sopportare meglio fatica e frustrazione:

– Intrattenere

– Stimolare l’interesse

Sarò sempre grata a quella mamma di 4 figli (nonna di non so quanti nipoti) che, per rispondere alla mia frustrazione di qualche anno fa per non riuscire a fare 10 minuti in auto con le bimbe senza che si lamentassero, mi disse: “Io facevo il gioco delle parole matte: dovevamo dire una lettera e trovare quante più parole possibili che iniziassero o finissero per quella lettera”. Niente di più semplice, un giochino verbale! Come ho fatto a non pensarci?

Ho subito provato e ha funzionato! Non solo ha funzionato, le mie figlie hanno elaborato versioni sempre più ricche, come inventare indovinelli.  Dal momento in cui abbiamo padroneggiato questa e altre possibilità, i viaggi sono stati affrontati da tutti noi con minor ansia rispetto alla possibile noia delle bambine e, cosa ancora più sorprendente, è diventato sempre meno necessario utilizzare queste strategie.  Come se, sapendo di avere un piano di riserva, diventasse meno urgente attivarlo.

Non credo che sia possibile affrontare un viaggio, specialmente se lungo, intrattenendo costantemente i propri figli con giochi e scherzi, è importante far conoscere loro diverse strategie creative che possono anche utilizzare tra loro (se sono più di uno), al fine da spezzare la monotonia del viaggio. Possiamo considerare la musica, ascoltare e inventare fiabe, cantare, parlare di sé e vari giochi divertenti di parole. Ottimi sostituti all’effetto anestetizzante di film, cartoni e videogiochi che, oltre ad allontanare dalla relazione, allontanano dall’esperienza di quello che sta passando fuori dal finestrino.

C’è infatti un’importante funzione educativa, descritta da Roberto Gilardi nel suo libro “Ho un sogno per mio figlio” che  è quella di stimolare interesse e curiosità.

Educare richiede impegno e creatività, anche in vacanza!

Per stimolare interesse nei figli sono necessarie alcune condizioni: la prima è essere motivati a farlo, la seconda godere di una buona relazione di stima e condivisione, la terza  è quella di creare legami tra le conoscenze del bambino e la nuova esperienza, affinché non senta di vivere qualcosa che è estraneo a lui e alla sua vita. Per esempio collegare luoghi e immagini a ciò che ha fatto a scuola, oppure inserire nel programma della vacanza alcune attività accattivanti come la visita ad un parco didattico, un giro in gommone se siamo al mare, un’escursione esplorativa, in modo da armonizzare le esperienze con la curiosità del bambino.

Durante il viaggio si possono osservare le differenze tra un ambiente e l’altro, sul tipo di vegetazione, sulla fauna (come scommettere su chi vede il primo gabbiano che ci dice che siamo vicini al mare, oppure richiamare l’attenzione su come cambiano gli alberi mano a mano che ci si sale di altitudine in montagna). Naturalmente più i ragazzi sono grandi e più si possono affrontare anche argomenti  complessi legati alla storia, la geografia, l’architettura, la storia dell’arte e renderli partecipi sul motivo della scelta di quel viaggio e sui nostri interessi.

All’arrivo vi sentirete  più rilassati, più arricchiti e sicuramente sorpresi di quanto interesse riescono a mostrare i bambini quando sono coinvolti in ciò che vivono.

Buon viaggio e buone vacanze!

 

Aziende in buona salute

di Lucilla Rizzini, mediatrice interculturale, business coach, formatrice Kaloi, fondatrice Ellecubica

15 novembre, piove a dirotto. Sono in macchina, sto rientrando da una giornata in azienda dove ho tenuto il secondo incontro di formazione The Difference Kaloi.

Ripercorro le ore appena trascorse, i volti, gli scambi con i partecipanti, i momenti di riflessione, di leggerezza e sono soddisfatta: il corso sta muovendo energie promettenti. Sono immersa in questi pensieri quando squilla il cellulare.

E’ Giacomo, il giovane imprenditore che ho salutato da poco. Penso voglia fare il punto sul gruppo invece mi sorprende con una frase diretta, espressa con urgenza: “Lucilla, ho un problema in azienda: ti occupi anche di gestione dei conflitti, corretto?”

Collaboro con le aziende come mediatrice interculturale e  business coach per chi vuole inserirsi nei mercati internazionali. Entrambe le professioni condividono un obiettivo iniziale, prerequisito per ogni intervento successivo: sensibilizzare l’imprenditore alla necessità e utilità di investire energie e risorse sulla buona salute aziendale. La qualità delle relazioni umane è fattore-chiave di buona salute. Non è solo una scelta etica. Un team affiatato, con regole chiare, orgoglioso di tendere ad una finalità condivisa è (anche) utile all’azienda: i collaboratori producono di più, meglio, riducono assenteismo e giorni di malattia. Come a dire: ad ogni imprenditore il suo perché.

L’azienda è un sistema complesso, sono numerosi gli intrecci relazionali in cui possono emergere conflitti fisiologici tra le parti sociali (direzione, sindacati, dipendenti), all’interno dei gruppi di lavoro, tra titolari e rappresentanti, tra azienda e clienti. Il conflitto è sempre latente. Fa parte del mio ruolo offrire supporto, strumenti di lettura e di gestione di questa componente inevitabile ed energizzante delle relazioni umane. Un conflitto che trova spazio e canali di elaborazione (con la presenza di un mediatore, se necessario) può rappresentare un volano per relazioni umane più solide, chiarificate, cooperative.

Incontro Giacomo qualche giorno dopo la telefonata. Ha rilevato l’azienda del padre da un anno e investe con entusiasmo sincero nelle risorse umane.
Racconta con orgoglio dell’attività d’impresa, del business che va a gonfie e vele.

Riferisce con rammarico la situazione che gli dà il tormento: scontri continui, anche atomici, tra due collaboratrici che definisce “le più preziose per me”. Raccolgo molte informazioni e mi prendo il tempo per elaborare una proposta di intervento.

Dopo due settimane chiedo un appuntamento con l’imprenditore e le due dipendenti: Sara, giovane neo laureata assunta da poco e Ludovica, storica presenza in azienda. La mia proposta è accolta con disponibilità e sollievo, soprattutto per il desiderio condiviso di risolvere una situazione molto pesante, per tutti.

Ho accompagnato le due donne in un percorso di coaching in 5 fasi.

1) Primo incontro individuale: Sara e Ludovica hanno uno spazio riservato per dire di sé, per esplorare i propri vissuti.

2) Secondo incontro individuale: Sara e Ludovica hanno uno spazio protetto in cui essere accompagnate fuori dalla loro zona di comfort. Hanno esplorato il riflesso della collega su sé.

3) Incontri condivisi e mediati: Sara e Ludovica cominciano a comunicare, con la mia facilitazione come coach-mediatore. Tre incontri sono stati sufficienti per passare all’ultima fase.

4) Incontri condivisi evolutivi: Sara e Ludovica parlano per capirsi. Scoprono nuove possibilità, le loro. Non è necessario diventare buone amiche per essere due colleghe che collaborano con rispetto e stima per le qualità che riconoscono all’altra. Due incontri di grande crescita, il mio compito è (quasi) terminato.

5) Follow up: ci diamo un appuntamento a distanza di un mese per vedere come vanno le cose.

Dal diario di bordo di Sara e Ludovica:

“Inizialmente ho gestito il disagio evitando di addentrarmi nel problema. Pensavo di avere il problema di essere antipatica ad un’altra persona. Grazie alla mediazione sono riuscita a separare questo aspetto di natura personale dall’aspetto di natura professionale e questo mi ha aiutato”

“Senza ombra di dubbio avere parlato ed esplicitato le rispettive opinioni ha aiutato. Siamo due caratteri forti che faticano a nascondere emozioni o sensazioni. L’equilibrio tra noi è quello di parlare, discutere e avere la volontà di capire l’altra. Siamo diverse.”

“Mi sento collega, con ancora molta strada da fare. Desidererei che la collegialità si estendesse ed è per questo che desidererei proseguire parlando in laboratorio di ogni situazione di disagio”

“È un percorso che richiede impegno e io voglio impegnarmi per creare un ambiente sereno, per essere una squadra, perché come squadra funzioniamo bene”.

Il corso di formazione The Difference ha creato un movimento, una nuova consapevolezza. Questo ha fatto maturare la volontà di affrontare una situazione di conflitto che si trascinava da tempo. Così ho passato quattro mesi in azienda e i miei rapporti umani hanno intrecciato nuovi, preziosi fili. Ho dato, mi sono arricchita.
A conclusione della collaborazione, Giacomo mi ha invitata ad un aperitivo aziendale, presentandomi nuovi  collaboratori. Percepisco un clima sereno, si ride si scherza, ci si rispetta, si impara e si realizzano risultati.

Bevo un aperol spritz con loro, felice di aver contribuito a questo storico momento di cambiamento.

Adozione, un’esperienza

Cara Barbara, il cammino dell’adozione si è rivelato più difficile del previsto, a volte ci sentiamo scoraggiati e Carlo ha parlato di mollare. Non so più dove trovare le energie e cosa sia meglio fare. E’ stato così anche per te? Come hai fatto ad arrivare fino in fondo?

Milena

risponde Barbara Bravi, pedagogista, counsellor e formatrice Kaloi

Cara Milena,

adottare una bambina o un bambino è un passo importante, unico e ricco di emozioni.

La mia esperienza è iniziata nel 2009 e, come sai, sono diventata mamma nel 2014. Una gravidanza a rischio durata cinque anni. Due persone incinte: io e Massimiliano. La gravidanza adottiva è vissuta sulla pelle di entrambi, allo stesso identico modo. Il papà è agganciato alla mamma, sempre. Ad ogni visita, ad ogni appuntamento, ad ogni incontro preparatorio, ad ogni colloquio si va in due. Il ruolo del padre adottivo, durante l’attesa, va molto oltre la più affettuosa partecipazione nei nove mesi di una gravidanza naturale.

Vorrei condividere con te la nostra storia, i passi della nostra avventura a tappe, i percorsi in salita, le difficoltà affrontate e le risorse che ci hanno aiutato ad andare avanti nei momenti più scoraggianti. Per ogni tappa del percorso, ti mostrerò la nostra “cassetta degli attrezzi”, le risorse messe in gioco per affrontarla. Ogni tappa superata, una bandierina. Per raggiungere finalmente il traguardo più bello della nostra famiglia: l’arrivo di Francesca.

Come sai, abbiamo scelto l’adozione nazionale. I Servizi Sociali hanno svolto un ruolo importante di sostegno e accompagnamento. Viviamo in Emilia Romagna, siamo stati accolti bene con un programma intenso e impegnativo. Inizialmente abbiamo
frequentato un corso di quattro incontri, insieme ad altre coppie che aspiravano all’adozione. In questi primi passi l’impatto psicologico è notevole. Vengono sollecitate certezze e incertezze, bisogni e aspettative. Quelle legittime e quelle no. I dubbi e le paure vanno affrontati con coraggio. Il diritto primario è quello del bambino ad avere una famiglia e non quello della famiglia ad avere un bambino. E’ più facile da scrivere che da vivere profondamente. E’ una verità assoluta, anche per i figli naturali. Ma il genitore adottivo deve porsi di fronte a molte domande e affrontare onestamente se stesso. Il genitore naturale potrebbe non averne pensiero per tutta l’esistenza. Che nomi ha la motivazione che mi spinge? Come ho elaborato il lutto della mia sterilità? Ho accolto la sterilità del mio partner? Dov’è il mio dolore? Alcune coppie sono entrate in crisi, Massimiliano ed io siamo usciti rinforzati. Come coppia e come genitori. Abbiamo conquistato la prima bandierina.

Cassetta degli attrezzi: disponibilità ad entrare in contatto profondo con le proprie emozioni, i propri pensieri, valori, bisogni; apertura ad accogliere i vissuti senza giudicarli; coraggio di mettersi in discussione, di ridefinire le proprie aspettative, di digiunare rispetto ad alcuni bisogni; capacità di concedere lo stesso percorso al proprio partner.

Abbiamo cominciato la seconda fase: gli incontri di coppia con l’assistente sociale e la psicologa dell’Equipe Adozioni. Incontro e attesa. Incontro e attesa. Per un anno e molti colloqui. Infine abbiamo ottenuto l’idoneità all’adozione. Per altre coppie il tempo è maggiore, siamo stati fortunati.

Questa parte di percorso è stata in salita, animata da affiatamento ed entusiasmo ma, anche, da fatiche piccole e grandi. I colloqui erano condotti in serenità, con un’accoglienza benevola e informale ma è stato inevitabile sentirsi sotto al microscopio. Osservati, valutati. Da noi stessi per primi e severamente, a volte. Il rientro a casa ci vedeva attivati in mille pensieri. A volte muti e solitari, a volte condivisi, a volte discussi con dolore, a volte pianti. Accettare di andare benissimo imperfetti, così come siamo, è stata una meravigliosa conquista. Seconda bandierina.

Cassetta degli attrezzi: pazienza (tanta); fiducia; disponibilità a sfogliare le pagine della propria vita; apertura allo stupore nella conoscenza di parti di sé, del partner, della coppia; disponibilità ad accettare i propri limiti e quelli del partner; coraggio; apertura alla scoperta di nuove risorse e di imprevisti talenti; tenacia; memoria del traguardo che si desidera raggiungere insieme.

Depositiamo l’idoneità all’adozione al Tribunale dei Minori dell’Emilia Romagna. Copie, fotocopie, altre fotocopie. La terza fase è il tour burocratico. Noioso ma necessario. Non esiste un centro unico informatizzato  che coordina e comunica la nostra disponibilità ai diversi Tribunali. Dobbiamo inviare noi, una ad una,  l’intera documentazione fotocopiata ad ogni Tribunale dei Minori dei capoluoghi di (quasi) tutta Italia. Ci sentiamo come naufraghi che preparano con cura e affidano alle acque il loro messaggio nella bottiglia. “Noi siamo quì. Conoscete un bambino o una bambina che ha bisogno di una famiglia? Chiamate.” E loro chiamavano. Per conoscerci direttamente, procedura necessaria per accettare la documentazione spedita. E noi andavamo. In tutta Italia. Volentieri, anche se estenuante, costoso e se il lavoro ne risentiva. In questa fase si vive sospesi, in attesa; speri ma sai che potrebbe non accadere nulla. Dubiti. Servirà tutto questo? Il traguardo c’è? Dove, che non vedo?
Dopo 10 mesi il Tribunale di Napoli ci convoca per presentarci una possibilità. Terza bandierina, rosa! Siamo al settimo cielo e non riusciamo a dormire.

Cassetta degli attrezzi: nervi forti; speranza; fantasia e intuizione per orientarsi nei diversi contesti burocratici; tenuta di fronte alle difficoltà, alle delusioni, alle assurdità; disponibilità agli spostamenti; accettazione di essere “fuori fase” con il partner: uno sale, l’altro scende in momenti e periodi diversi.

L’appuntamento per conoscere “il caso” apre il cassetto dei sogni. Immagino sia così quando una donna viene a sapere di esser incinta, dopo averlo tanto desiderato. Parte il film. È una fase delicata in cui il sogno di diventare “quella” famiglia può portare a sottovalutare i bisogni del bambino, della bambina.

Mamma e papà possono avere desideri e disponibilità diverse. Esattamente come in una gravidanza naturale ma non è la stessa cosa. I genitori adottivi non possono permettersi proiezioni private, agende nascoste. E’ importante parlarsi subito, accogliere, lasciare scorrere le emozioni, non fermare, condividere, concordare, aiutarsi reciprocamente a restare con i piedi per terra. Andare con cautela e delicatezza estrema. Per il bambino, la bambina, la madre, il padre, la nuova famiglia che forse ci sarà ma è ancora sospesa e incerta come una bolla di sapone.
Usciamo dal Tribunale di Napoli con la nostra quarta bandierina, immersi in un silenzio vibrante di significati.

Cassetta degli attrezzi: sapere accogliere e gestire le emozioni; onestà nello stilare una “lista della spesa” di bisogni e possibilità della coppia; ascolto e comprensione; solidità di coppia; consapevolezza di valori; coraggio nel raccontarsela giusta. Fino in fondo.

Finalmente arriva il magico, unico momento dell’incontro con nostra figlia. Momento carico di promesse e attese. Una stanza con pareti bianche e quadri a tinte vivaci; un tavolo rotondo, un divanetto, un cesto con libri per bambini e qualche gioco tra cui un orso di peluche, bianco. Le emozioni si accavallano; mi sento serena, gioiosa, poi improvvisamente inquieta. Considero l’ipotesi di andare via, colta da un panico imprevisto. Massimiliano è in silenzio al mio fianco, non riesce a stare seduto e tormenta un mazzo di chiavi nella tasca dei pantaloni. Ogni tanto ci guardiamo, sorridiamo tesi, enigmatici. Cerchiamo le nostre emozioni nell’altro; quelle dell’altro dentro di noi.  Si apre la porta. Prima di vedere chi sta entrando sento le voci di una donna e di una bambina. Non so più se stare seduta o in piedi, se il cuore è fermo o sta per uscire dal petto. Il tempo rallenta, è sospeso. Vedo i suoi capelli neri, gli occhi scuri che ora sta abbassando. Mi sfiora un pensiero di cui mi pento subito: non parla come noi. Lei è grande, ha otto anni, ha la sua storia. Sento il cuore aprirsi, sorrido, sono pronta.

Non è stato un  colpo di fulmine.
L’amore è arrivato dopo, più tardi. Conoscendoci, frequentandoci. So che succede anche a molti genitori naturali, per noi è stato un tormento. Quasi fosse una colpa non essere folgorati. Massimiliano ed io non abbiamo avuto gli stessi tempi di coinvolgimento; anche questo è normale, ci avevano avvertiti. Saperlo, però, non ha alleggerito la fatica. Cercavamo una conferma. Disperatamente.  Sì sì, no no. Non potevamo rischiare incertezze. Il no che sia presto, il sì che sia per sempre.  Una responsabilità enorme per quella creatura che ora aveva un nome e un volto. Abbiamo passato molte notti inquiete. La quinta bandierina ci tremava tra le mani.

Cassetta degli attrezzi: tutte le risorse, ma proprio tutte e apertura all’abbandono, alla gioia, all’amore; coraggio di affrontare le paure e di lasciarsi andare alla fiducia e alla speranza.

Dopo  il primo incontro c’è un periodo di avvicinamento, passano mesi di conoscenza
reciproca, telefonate, incontri, prove di trasferimento, prove di distacco, nuovi equilibri. Arriva la nostalgia, il ricordo del volto, dei gesti, delle espressioni. Arrivano i sorrisi
pensando a lei, mentre faccio altro; il desiderio di rivederla, il bisogno di sentire la sua voce, di sapere come sta. Arriva l’amore.
Arriva il sì! pieno. Gioioso, felice, impaziente. Arriva il giorno in cui andiamo a prendere Francesca per portarla a casa, per sempre. E’ nata una nuova famiglia. Traguardo raggiunto! Inizia la luna di miele.

Cassetta degli attrezzi: pazienza; capacità di autorizzarsi un tempo per la coppia e per i tempi di ognuno; consapevolezza della fase di cambiamento; impegno nel progettare una  nuova famiglia; capacità di favorire l’attaccamento con pensiero riflessivo e orientato; disponibilità a scoprire nuova intimità; capacità di orchestrare nuove modalità per i legami del passato (amici, parenti); disponibilità a lasciarsi aiutare, a non volere fare tutto da soli. Capacità di ridere e di prendere le cose alla leggera; di accettare i propri limiti, la propria stanchezza, la frustrazione, il senso di inadeguatezza. Capacità di dire no a tante persone abituate ai nostri sì. Disponibilità ad accogliere la perdita di anni libertà e di scelte improvvisate (che facciamo stasera? Andiamo al cinema?). E’ strano. Le cose più prevedibili (l’arrivo di un figlio condiziona la vita) sono capaci di sorprenderci e di trovarci impreparati.

In questa fase delicatissima riprende il supporto dei servizi sociali con colloqui di coppia e visite a casa, incontri di gruppo con altri genitori adottivi, incontri tra bambini adottati. Siamo stati aiutati a organizzare la nostra nuova vita, a elaborare le tumultuose emozioni che l’hanno attraversata. La solida rete familiare e di amici ci ha sostenuto nei momenti di sconforto e in quelli di gioia, anche questo è stato fondamentale.

Sono passati sei mesi. La nostra vita ha preso nuovi ritmi, quello che prima era
sconvolgente ora è una piacevole routine. Anche questo, quando le cose vanno bene, è esattamente quello che accade in ogni  famiglia naturale con l’arrivo di un bambino.

Un cambiamento radicale diventa, nel tempo, una nuova ritmica abitudine.

Resilienza. In fisica è la capacità dei materiali di sopportare pressione e deformazione senza spezzarsi; in biologia è la capacità di alcune cellule di auto-ripararsi, tornando allo stato iniziale dopo aver subito un trauma, un danno, una forte sollecitazione. Le persone con una buona resilienza riescono, quando sono immerse in circostanze avverse, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e a raggiungere mete importanti.

La resilienza, tra tutte le risorse della nostra cassetta degli attrezzi, è quella che ci ha aiutato a conquistare, bandierina dopo bandierina, il nostro meraviglioso traguardo.

 

Rigore e dialogo coi giovani, croce e delizia

di Fulvio Baralis, counsellor professionista e formatore Kaloi

Sto iniziando la mia prima lezione in uno dei tanti corsi che svolgo da anni con i lavoratori apprendisti, giovani tra i 18 e i 30 anni. Biologicamente adulti, non sempre nei comportamenti. Quello che ho davanti è un gruppo con bassa scolarità, licenza media; la maggior parte di loro lavora in imprese artigianali: impiantistica elettrica civile e industriale, termoidraulica, installazione dei serramenti ecc.

Oggi è il loro primo giorno d’aula. Un responsabile dell’Agenzia Formativa ha illustrato loro la Legge che regola l’apprendistato, un contratto che prevede l’obbligo – per il datore di lavoro –  di garantire la formazione necessaria ad acquisire (o riqualificare) una professionalità.  I partecipanti sono stati informati sugli orari e le regole di partecipazione al corso.

Ho iniziato la lezione da circa venti minuti quando scorgo nella penultima fila un ragazzo che, mi pare, dorme con la testa appoggiata sul banco. E’ Antonio. Mi avvicino. Qualche compagno sorride. Decido di soprassedere, di aspettare. Redarguirlo potrebbe rompere il clima di attenzione che sono riuscito a suscitare nel gruppo, innescare polemiche e discussioni. I ragazzi di quell’età si mostrano spesso solidali tra loro, fanno squadra a prescindere. Sono poco inclini a rispettare le regole e a riconoscerne la necessità in contesti istituzionali. Sono giovani che hanno alle spalle una storia scolastica difficile e infelice, di bocciature e drop-out (abbandono degli studi).  Mal sopportano le lezioni teoriche e il dover stare seduti e fermi per tante ore.

Passano dieci minuti. Qualcuno si accorge della situazione, guarda il compagno appisolato poi me, come a  scrutare la mia reazione.  Altri sorridono tra loro con aria compiaciuta e beffarda. Approfitto della chiusura di un argomento per intervenire.

“Che fai, dormi?” domando, a due passi da lui. Non si muove ed è una risposta. Il compagno di banco gli dà una vigorosa gomitata e il ragazzo si ricompone stropicciandosi gli occhi.

“Che fai, dormi?” ripeto.

Mi fissa in silenzio, guarda i suoi compagni, sorride e risponde con voce fiacca “Perché? Non si può?”.  Strappa la risata al gruppo, ne è molto soddisfatto.

Segue un dialogo che mette a dura prova la mia pazienza.  Ad ogni tentativo di definire criteri minimi di presenza ad una lezione, Antonio risponde con frasi paradossali: “E cosa dovrei fare?”, “Boh, per quello che mi interessa!”, “Ma per lei cosa cambia se io dormo o meno?”, “Ma che gliene frega a lei?”, “Si legga il giornale, tanto la pagano lo stesso!”.

Resto in questo scambio, tenendo il punto senza alterarmi. Il mio tono di voce, fermo e deciso, rimane comunque molto garbato. D’altronde le sue posizioni e i suoi modi sono assolutamente inaccettabili e stanno pregiudicando il tempo della lezione.

Lo avverto che potrei vedermi costretto a segnalare il suo comportamento ai responsabili del corso e al suo datore di lavoro.  Antonio fa spallucce: “E chi se ne frega! Tanto il titolare è mio zio. A lui non gliene importa niente se io dormo. È lui il primo a dire che tanto qui non si viene a fare nulla!”

Chissà se è vero (povero mondo adulto!).  Oltre a rapidi pensieri sulla realtà educativa e il destino di alcuni “figli / nipoti di…”, mi pongo domande fugaci sulla costruzione della motivazione  nei contratti di apprendistato; su quanto le aziende credano all’opportunità formativa. La vivono come una scocciatura necessaria?

Non c’è tempo per queste riflessioni, non è il contesto in cui affrontarle. Scelgo di chiudere il discorso definendo i limiti della mia disponibilità e dell’ambito formativo che stiamo condividendo.  Mi rivolgo a lui con pacata fermezza, definitiva:
“Antonio, io non ho voglia di discutere con te o con altri dell’ABC dell’Apprendistato, del perché esiste, del perché è previsto un giorno di formazione alla settimana per cinque settimane, delle sue regole o della necessità della buona educazione. Ti ripeto per l’ultima volta che tu, come tutti, sei tenuto a tenere un atteggiamento adeguato al contesto in cui ci troviamo. Punto. Non aggiungerò più altro in merito.”

Antonio apre lentamente le spalle, si appoggia allo schienale e tace. Riprendo la lezione, non senza difficoltà. Alcuni allievi interagiscono proficuamente suscitando, a poco a poco, l’interesse di altri compagni; ogni tanto interviene anche Antonio. E così farà nei successivi incontri, anche se la disciplina non è mai stata il suo forte. Il percorso è proseguito così, alternando coinvolgimento, dialogo, fermezza, richiami quando necessario.  Ed è arrivata l’ultima lezione.

La settimana successiva Antonio è in cortile, in compagnia di altri corsisti. Mi saluta cordialmente, mi avvicina.  “Professore, lo prende un caffè?”

“Volevo scusarmi con lei”, mi dice. “Il corso non mi piace, è proprio inutile, però ci tenevo a dirle che l’ho molto apprezzata. Lei non è come gli altri, non mi ha mai mancato di rispetto, anche quando mi ha sgridato”.

Le sue parole mi hanno riempito di stupore e soddisfazione. Emozioni che proprio gli allievi più impegnativi riescono a dare. Rigore e dialogo possono coesistere e, quando coesistono, portano buoni frutti. Il rispetto delle regole è necessario e va affermato con fermezza ma il tempo e la fatica (perché a volte è proprio una fatica) investiti nel dialogo rispettoso fanno la differenza.

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