Sexting, sesso e social media

di Paola Breseghello, counsellor, cultrice di scrittura autobiografica LUA, formatrice Kaloi

Sexting

Sono in aula, ho di fronte una ventina di ragazze e ragazzi di terza media.

E’ il secondo incontro del progetto Sicur@mente.  Faccio partire il  video, consapevole che la discussione si farà calda. Hot.

Si parla di sexting (sex-texting), lo scambio di messaggi e immagini sessualmente esplicite.

Un adolescente su tre li ha inviati, uno su due ne ha ricevuti. Il primo invio tra gli 11 e i 14 anni. Il 34% delle foto ricevute viene condivisa con altri, senza il consenso dell’interessato.
E’ il risultato di due indagini condotte da CREMIT e Pepita su un totale di 1800 ragazzi tra gli 11 e i 18 anni.

La scoperta dell’affettività, del proprio corpo e della sessualità è un passaggio naturale, determinante e bello della crescita. E’ importante poterne parlare in modo diretto, semplice, pulito, non colpevolizzante.

alberto-pellai

Alberto Pellai, psicoterapeuta e padre di quattro figli, nel libro Tutto troppo presto, l’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet fornisce un decalogo per l’educazione sessuale 2.0. Il primo punto è “non tirarsi indietro”. Sostiene che questa è la prima generazione di genitori e di educatori che non può permettersi di non parlare di sesso. (www.tuttotroppopresto.it)

Così, nella mia aula, il video scorre. https://www.youtube.com/watch?v=DwKgg35YbC4
Megan invia una foto intima ad un compagno di classe. Rientra in aula con sguardo timido e innamorato, guarda l’amato con un sorriso pulito. Presto si rende conto che la sua immagine sta girando tra i cellulari dei compagni e delle compagne di classe. I maschi le lanciano occhiate ammiccanti, biglietti provocanti, frasi di lascivi complimenti. Le femmine la guardano indignate, bisbigliano tra loro, serpeggia il disprezzo. Infine squilla il cellulare del professore, che riceve anche lui la foto. Megan è sempre più imbarazzata, umiliata, ferita. Fugge dalla classe.

Le risatine tra i miei alunni sono numerose, qualche gomitata tra vicini, sguardi abbassati di teste chine. Interrompo il video più volte per chiedere ai ragazzi: cosa ha fatto Megan? E’ illegale? Cosa ha fatto il ragazzo? E’ legale? Cosa avrebbe potuto fare?  E i compagni di scuola cosa hanno fatto? E’ legale? Cosa avrebbero potuto fare? E le amiche?

Si apre la questione: la differenza tra giudizio morale e legalità. E’ una differenza importante. Sono diverse responsabilità. Megan può essere stata imprudente nei confronti di se stessa, può avere “sbagliato” in base a scelte di valori.  Ma non ha fatto nulla di illegale. Ha fatto male solo a se stessa. Il suo innamorato, invece, ha compiuto un
reato grave. Oltre a “sbagliare” su scelte di valori (confidenzialità, lealtà, rispetto, intimità). Così i compagni che hanno ulteriormente divulgato l’immagine, senza fermare l’orrore.

Il giudizio dei ragazzi ondeggia, si muove. Molti partono da un rigidissimo “Se l’è cercata! E’ una t…”, nessuno cyberbullismoappoggia Megan.  Faticano a distinguere tra moralità e violenza. Peggio: un giudizio di immoralità giustifica la violenza. Assolvono chi “non ha fatto nulla ma ha solo ricevuto”. Riflettiamo su una diversa possibilità, la possibilità d’errore. Sulle differenze di genere. Sulle parole giusto-sbagliato. Non tengo la parola con grandi discorsi, li sollecito con alcune domande. “Quindi voi pensate che, se una ragazza ha una minigonna, se l’è cercata? Che, se l’è cercata, merita violenza?” oppure “Tu hai una sorella?”. Sono loro a fare il percorso. I ragazzi vacillano, si spostano, qualcuno dice “ha ragione, è vero!”.

Brevi articoli di legge citati nelle slide li aiutano ad orientarsi, a scegliere da che parte stare. Ci fermiamo su questa necessità: posizionarsi in modo riflessivo, non superficiale, è un atto di crescita fondamentale. Sulle slide appare anche Voltaire: non sono d’accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee. Che cosa ci può significare?

ragazzineNormalizzo la curiosità adolescenziale, l’errare e l’errore. Aggiungo “prima non sapevate; ora sapete. Ora potete evitare di farvi e fare del male…”. Accenno alla banalità del male, che è l’azione senza riflessione. Non è mio compito definire cosa sia “morale” in ambito sessuale. Mi soffermo su valori come intimità, dignità, privato, pubblico, sociale. Sul non anticipare, sul darsi tempo per crescere.

Allora, cosa si potrebbe fare? Lascio proporre loro idee, scopriamo insieme come auto-tutelarsi nella protezione dell’ immagine, del privato, dell’intimità, della reputazione.  Informo sui limiti legali (e di buon rispetto umano) nell’uso delle immagini altrui. I ragazzi sono attenti alle informazioni, vogliono sapere come fare bene.  Alcuni sono sinceramente stupefatti e dispiaciuti nello scoprire d’avere già compiuto azioni illegali. Qualcuno esclama “cavolo, non sapevo!”.
In quel clima di dialogo aperto e fluido, emerge che in quella scuola è avvenuto un episodio uguale. Girava  un video di cellulare in cellulare. La ragazzina protagonista s’è ritirata da scuola per la vergogna. Mi si stringe il cuore. Riconsiderano il giudizio su di lei e la loro stessa posizione.

Si arriva a parlare di chi sa, assiste e non fa niente. Niente per fermare, niente per avvisare, niente per sostenere.  Una ragazzo si sente nel giusto, dichiara con orgoglio “Io l’ho ricevuto ma l’ho cancellato, non l’ho fatto girare!”.  Gli dico “ottimo, bravo” poi lancio a tutti una domanda impertinente “vi sembra sufficiente?” .  Cammina, parla, discuti presento loro le tre scimmiette “non vedo, non sento, non parlo”: le conoscevano bene!  Sbilancio anche quell’ultima comoda certezza (un presunto simbolo di lealtà amicale) e concludo l’incontro con tre opposte, responsabili, scimmiette: io vedo, io sento, io parlo.
I ragazzi applaudono, alcuni si avvicinano prima di uscire, sussurrano “grazie”.

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Sitografia:

http://www.cremit.it/public/2014/Report%20Iniziale%20sintesi%20partner.pdf

http://www.pepita.it/news/sexting-e-adolescenti-la-campagna-di-prevenzione-di-pepita

http://www.pepita.it/in-evidenza/online-il-manuale-contro-il-bullismo-sessuale

http://www.corriere.it/scuola/medie/14_ottobre_17/ragazzo-due-vittima-sexting-fc0debda-55fd-11e4-8d72-a992ad018e37.shtml

http://www.azzurro.it/it/informazioni-e-consigli/consigli/sexting/sexting-cosa-si-intende

http://www.tuttotroppopresto.it/

http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2015/educazione-sessuale-nativi-digitali-50204096065.shtml?refresh_ce-cp

http://www.slideshare.net/doxa_italia/osservatorio-adolescenti

http://www.sostenitori.info/13enne-costretta-a-spogliarsi-selfiesex-e-allarme/

https://www.youtube.com/watch?v=dGOIZ9ci2b8
https://www.youtube.com/watch?v=iLtY9FDI7pE

Il sexting coinvolge anche gli adulti (ce ne sarebbe da dire):

http://www.style.it/sex/seduzione/2014/11/26/sexting-le-dritte-e-i-trucchi-per-usarlo-al-meglio.aspx

http://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2014/02/17/sexting-app-migliori-per-iphone-android/

http://d.repubblica.it/amore-sesso/2013/04/05/news/sesso_psico_giochi-1593652/

 

 

 

In vacanza con i bambini. Un viaggio è un viaggio

Le vacanze si avvicinano, che meraviglia! Eppure sono già in ansia per il viaggio fino in Puglia (abitiamo in Veneto). Ho 2 figli di 4 e 7 anni, in macchina passano il tempo a litigare o a lamentarsi. Un incubo. Mi può dare qualche consiglio?

Katia

risponde Manuela Zorzi, psicologa e formatrice Kaloi

Stiamo scendendo in auto dalle colline dove viviamo, lungo strade con curve e tornanti, quando mia figlia di 7 anni  avverte la solita nausea da mal d’auto e inizia a lamentarsi. Le dico “Cerca di guardare la strada, avanti;  segui la direzione delle curve! Se continui a guardare in giro è peggio!” Giulia risponde tranquilla: “Mamma, il viaggio è un viaggio e se è un viaggio bisogna guardare fuori!”

È stato come se mi avesse letto nel pensiero e avesse saputo che, proprio in quei giorni, cercavo un titolo per parlare dei viaggi con i bambini in auto.

Sempre più spesso i genitori che acquistano un’auto nuova chiedono che si possano aggiungere lettori dvd o  monitor per far vedere film o cartoni ai bambini durante i “lunghi” viaggi, oppure partono da casa assicurandosi  di non aver dimenticato tablet, nintendo e altri dispositivi elettronici per intrattenere i più piccoli durante gli spostamenti.

L’ansia sale dopo il primo “Papà, mamma, quando arriviamo?”, due chilometri dopo la partenza. E  i genitori a chiedersi “Come affronteremo i prossimi 150/300/900…? Possibile che non si riesca a fare un viaggio tranquilli?”

Ebbene riflettiamo su questo fenomeno cercando di capire perché accade e cosa fare.

Parliamo di viaggi fatti in orario diurno, di notte il problema non si pone, se i bambini dormono.

Dal punto di vista di un bambino affrontare un viaggio significa stare seduto fermo per una quantità indefinita di tempo, significa avere una visuale limitata dallo schienale dei sedili anteriori, significa avere un ruolo passivo rispetto all’organizzazione e alle tempistiche, il tutto probabilmente condito dal nervosismo dei genitori  intenti a concentrarsi sul tragitto e sulle decisioni da prendere, piuttosto che parlare con lui. La noia è in agguato ed è decisamente un sentimento poco amato dai bambini, come dalla maggior parte degli adulti.

Dal punto di vista dei genitori al viaggio appartengono aspetti diversi,  ambivalenti: finalmente si parte per la vacanza desiderata, c’è la voglia e la curiosità di conoscere un posto nuovo o semplicemente di sperimentare svago e relax, il bisogno di staccare dal lavoro e dallo stress: una serie di aspettative positive. D’altronde è spesso presente l’ansia per il viaggio (traffico, pericoli, costi, caldo, freddo, incertezza sulla strada da percorrere, lingua straniera, fame, sete, sonno) e per l’organizzazione  (aver preso tutto il necessario, decidere le soste ecc.). Uno stato d’animo che può passare dall’euforico al preoccupato e richiede ai genitori uno sforzo di concentrazione e attenzione.  L’ultima cosa che vorrebbero  è ascoltare le lamentele o i litigi de i figli seduti sui sedili posteriori.

Come intervenire allora per rendere i viaggi in auto più positivi per tutti?

Le cose da fare, una volta tenuto conto dei bisogni fisiologici e fisici dei bambini  (muoversi, andare in bagno, mangiare, dormire) sono due e riguardano la soddisfazione di bisogni psicologici: essere ascoltati, non annoiarsi ed essere motivati per sopportare meglio fatica e frustrazione:

– Intrattenere

– Stimolare l’interesse

Sarò sempre grata a quella mamma di 4 figli (nonna di non so quanti nipoti) che, per rispondere alla mia frustrazione di qualche anno fa per non riuscire a fare 10 minuti in auto con le bimbe senza che si lamentassero, mi disse: “Io facevo il gioco delle parole matte: dovevamo dire una lettera e trovare quante più parole possibili che iniziassero o finissero per quella lettera”. Niente di più semplice, un giochino verbale! Come ho fatto a non pensarci?

Ho subito provato e ha funzionato! Non solo ha funzionato, le mie figlie hanno elaborato versioni sempre più ricche, come inventare indovinelli.  Dal momento in cui abbiamo padroneggiato questa e altre possibilità, i viaggi sono stati affrontati da tutti noi con minor ansia rispetto alla possibile noia delle bambine e, cosa ancora più sorprendente, è diventato sempre meno necessario utilizzare queste strategie.  Come se, sapendo di avere un piano di riserva, diventasse meno urgente attivarlo.

Non credo che sia possibile affrontare un viaggio, specialmente se lungo, intrattenendo costantemente i propri figli con giochi e scherzi, è importante far conoscere loro diverse strategie creative che possono anche utilizzare tra loro (se sono più di uno), al fine da spezzare la monotonia del viaggio. Possiamo considerare la musica, ascoltare e inventare fiabe, cantare, parlare di sé e vari giochi divertenti di parole. Ottimi sostituti all’effetto anestetizzante di film, cartoni e videogiochi che, oltre ad allontanare dalla relazione, allontanano dall’esperienza di quello che sta passando fuori dal finestrino.

C’è infatti un’importante funzione educativa, descritta da Roberto Gilardi nel suo libro “Ho un sogno per mio figlio” che  è quella di stimolare interesse e curiosità.

Educare richiede impegno e creatività, anche in vacanza!

Per stimolare interesse nei figli sono necessarie alcune condizioni: la prima è essere motivati a farlo, la seconda godere di una buona relazione di stima e condivisione, la terza  è quella di creare legami tra le conoscenze del bambino e la nuova esperienza, affinché non senta di vivere qualcosa che è estraneo a lui e alla sua vita. Per esempio collegare luoghi e immagini a ciò che ha fatto a scuola, oppure inserire nel programma della vacanza alcune attività accattivanti come la visita ad un parco didattico, un giro in gommone se siamo al mare, un’escursione esplorativa, in modo da armonizzare le esperienze con la curiosità del bambino.

Durante il viaggio si possono osservare le differenze tra un ambiente e l’altro, sul tipo di vegetazione, sulla fauna (come scommettere su chi vede il primo gabbiano che ci dice che siamo vicini al mare, oppure richiamare l’attenzione su come cambiano gli alberi mano a mano che ci si sale di altitudine in montagna). Naturalmente più i ragazzi sono grandi e più si possono affrontare anche argomenti  complessi legati alla storia, la geografia, l’architettura, la storia dell’arte e renderli partecipi sul motivo della scelta di quel viaggio e sui nostri interessi.

All’arrivo vi sentirete  più rilassati, più arricchiti e sicuramente sorpresi di quanto interesse riescono a mostrare i bambini quando sono coinvolti in ciò che vivono.

Buon viaggio e buone vacanze!

 

Aiutarsi con l’Auto Mutuo Aiuto. Noi, genitori di figli adolescenti

di Valeria Magri, counsellor e formatrice Kaloi

Il cerchio dell’auto mutuo aiuto prende avvio dalla sensazione di un fuoco che attanaglia tutti, per arrivare a gestire il fuoco e riscaldarsi con esso.   A. Devoto

famiglia in crisi

E’ un pomeriggio di ottobre, la scuola è iniziata da poco e i genitori del nostro gruppo di auto mutuo aiuto sono molto preoccupati. Si tratta di un gruppo di genitori di figli adolescenti che si trovano, a cadenza quindicinale, per parlare di problemi inerenti la relazione con i figli, per scambiarsi le esperienze e trarre un po’ di sollievo nella condivisione. Il gruppo si chiama “Adolescenza Insieme”. Ha avuto inizio un anno fa con il supporto di un esperto che si è progressivamente spostato sullo sfondo, lasciando il timone ai partecipanti. Perché, in realtà, da noi a Bologna, la concezione di gruppo di auto mutuo aiuto è che sia  formato da pari, senza un conduttore-esperto ma semplicemente con la presenza di un facilitatore che abbia una funzione organizzativa e di facilitazione della comunicazione.

images (2)In questo contesto tutti sono coinvolti, chiunque ha qualcosa da dire, di importante e significativo. Si parla di vita, di eventi, di esperienze, di vissuti, di disagi. E la cosa è facilitata dal clima relazionale che si cerca di rendere il più possibile accogliente e non giudicante. All’inizio può succedere che qualcuno abbia talmente voglia e bisogno di raccontarsi, che il gruppo stesso, cogliendo questa urgenza, gli offra quello spazio sufficientemente ampio che gli consente di esprimere il suo vissuto magari difficile e intenso, senza dimenticare però che, nella filosofia del mutuo aiuto, ognuno deve avere il proprio ambito di espressione. Occorre darsi quindi delle regole: prima di tutto, oltre che esprimersi, occorre saper ascoltare gli altri e poi parlare uno alla volta. Sembra facile, ma quando il bisogno di esprimersi di chi ti è seduto accanto è così forte ed anche tu vorresti intervenire e dire … dire … dire … ecco la difficoltà, e allora subentra il facilitatore il cui ruolo è quello di favorire una comunicazione tra i partecipanti possibilmente fluida e circolare, nel rispetto degli spazi di ognuno.

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Aziende in buona salute

di Lucilla Rizzini, mediatrice interculturale, business coach, formatrice Kaloi, fondatrice Ellecubica

15 novembre, piove a dirotto. Sono in macchina, sto rientrando da una giornata in azienda dove ho tenuto il secondo incontro di formazione The Difference Kaloi.

Ripercorro le ore appena trascorse, i volti, gli scambi con i partecipanti, i momenti di riflessione, di leggerezza e sono soddisfatta: il corso sta muovendo energie promettenti. Sono immersa in questi pensieri quando squilla il cellulare.

E’ Giacomo, il giovane imprenditore che ho salutato da poco. Penso voglia fare il punto sul gruppo invece mi sorprende con una frase diretta, espressa con urgenza: “Lucilla, ho un problema in azienda: ti occupi anche di gestione dei conflitti, corretto?”

Collaboro con le aziende come mediatrice interculturale e  business coach per chi vuole inserirsi nei mercati internazionali. Entrambe le professioni condividono un obiettivo iniziale, prerequisito per ogni intervento successivo: sensibilizzare l’imprenditore alla necessità e utilità di investire energie e risorse sulla buona salute aziendale. La qualità delle relazioni umane è fattore-chiave di buona salute. Non è solo una scelta etica. Un team affiatato, con regole chiare, orgoglioso di tendere ad una finalità condivisa è (anche) utile all’azienda: i collaboratori producono di più, meglio, riducono assenteismo e giorni di malattia. Come a dire: ad ogni imprenditore il suo perché.

L’azienda è un sistema complesso, sono numerosi gli intrecci relazionali in cui possono emergere conflitti fisiologici tra le parti sociali (direzione, sindacati, dipendenti), all’interno dei gruppi di lavoro, tra titolari e rappresentanti, tra azienda e clienti. Il conflitto è sempre latente. Fa parte del mio ruolo offrire supporto, strumenti di lettura e di gestione di questa componente inevitabile ed energizzante delle relazioni umane. Un conflitto che trova spazio e canali di elaborazione (con la presenza di un mediatore, se necessario) può rappresentare un volano per relazioni umane più solide, chiarificate, cooperative.

Incontro Giacomo qualche giorno dopo la telefonata. Ha rilevato l’azienda del padre da un anno e investe con entusiasmo sincero nelle risorse umane.
Racconta con orgoglio dell’attività d’impresa, del business che va a gonfie e vele.

Riferisce con rammarico la situazione che gli dà il tormento: scontri continui, anche atomici, tra due collaboratrici che definisce “le più preziose per me”. Raccolgo molte informazioni e mi prendo il tempo per elaborare una proposta di intervento.

Dopo due settimane chiedo un appuntamento con l’imprenditore e le due dipendenti: Sara, giovane neo laureata assunta da poco e Ludovica, storica presenza in azienda. La mia proposta è accolta con disponibilità e sollievo, soprattutto per il desiderio condiviso di risolvere una situazione molto pesante, per tutti.

Ho accompagnato le due donne in un percorso di coaching in 5 fasi.

1) Primo incontro individuale: Sara e Ludovica hanno uno spazio riservato per dire di sé, per esplorare i propri vissuti.

2) Secondo incontro individuale: Sara e Ludovica hanno uno spazio protetto in cui essere accompagnate fuori dalla loro zona di comfort. Hanno esplorato il riflesso della collega su sé.

3) Incontri condivisi e mediati: Sara e Ludovica cominciano a comunicare, con la mia facilitazione come coach-mediatore. Tre incontri sono stati sufficienti per passare all’ultima fase.

4) Incontri condivisi evolutivi: Sara e Ludovica parlano per capirsi. Scoprono nuove possibilità, le loro. Non è necessario diventare buone amiche per essere due colleghe che collaborano con rispetto e stima per le qualità che riconoscono all’altra. Due incontri di grande crescita, il mio compito è (quasi) terminato.

5) Follow up: ci diamo un appuntamento a distanza di un mese per vedere come vanno le cose.

Dal diario di bordo di Sara e Ludovica:

“Inizialmente ho gestito il disagio evitando di addentrarmi nel problema. Pensavo di avere il problema di essere antipatica ad un’altra persona. Grazie alla mediazione sono riuscita a separare questo aspetto di natura personale dall’aspetto di natura professionale e questo mi ha aiutato”

“Senza ombra di dubbio avere parlato ed esplicitato le rispettive opinioni ha aiutato. Siamo due caratteri forti che faticano a nascondere emozioni o sensazioni. L’equilibrio tra noi è quello di parlare, discutere e avere la volontà di capire l’altra. Siamo diverse.”

“Mi sento collega, con ancora molta strada da fare. Desidererei che la collegialità si estendesse ed è per questo che desidererei proseguire parlando in laboratorio di ogni situazione di disagio”

“È un percorso che richiede impegno e io voglio impegnarmi per creare un ambiente sereno, per essere una squadra, perché come squadra funzioniamo bene”.

Il corso di formazione The Difference ha creato un movimento, una nuova consapevolezza. Questo ha fatto maturare la volontà di affrontare una situazione di conflitto che si trascinava da tempo. Così ho passato quattro mesi in azienda e i miei rapporti umani hanno intrecciato nuovi, preziosi fili. Ho dato, mi sono arricchita.
A conclusione della collaborazione, Giacomo mi ha invitata ad un aperitivo aziendale, presentandomi nuovi  collaboratori. Percepisco un clima sereno, si ride si scherza, ci si rispetta, si impara e si realizzano risultati.

Bevo un aperol spritz con loro, felice di aver contribuito a questo storico momento di cambiamento.

Adozione, un’esperienza

Cara Barbara, il cammino dell’adozione si è rivelato più difficile del previsto, a volte ci sentiamo scoraggiati e Carlo ha parlato di mollare. Non so più dove trovare le energie e cosa sia meglio fare. E’ stato così anche per te? Come hai fatto ad arrivare fino in fondo?

Milena

risponde Barbara Bravi, pedagogista, counsellor e formatrice Kaloi

Cara Milena,

adottare una bambina o un bambino è un passo importante, unico e ricco di emozioni.

La mia esperienza è iniziata nel 2009 e, come sai, sono diventata mamma nel 2014. Una gravidanza a rischio durata cinque anni. Due persone incinte: io e Massimiliano. La gravidanza adottiva è vissuta sulla pelle di entrambi, allo stesso identico modo. Il papà è agganciato alla mamma, sempre. Ad ogni visita, ad ogni appuntamento, ad ogni incontro preparatorio, ad ogni colloquio si va in due. Il ruolo del padre adottivo, durante l’attesa, va molto oltre la più affettuosa partecipazione nei nove mesi di una gravidanza naturale.

Vorrei condividere con te la nostra storia, i passi della nostra avventura a tappe, i percorsi in salita, le difficoltà affrontate e le risorse che ci hanno aiutato ad andare avanti nei momenti più scoraggianti. Per ogni tappa del percorso, ti mostrerò la nostra “cassetta degli attrezzi”, le risorse messe in gioco per affrontarla. Ogni tappa superata, una bandierina. Per raggiungere finalmente il traguardo più bello della nostra famiglia: l’arrivo di Francesca.

Come sai, abbiamo scelto l’adozione nazionale. I Servizi Sociali hanno svolto un ruolo importante di sostegno e accompagnamento. Viviamo in Emilia Romagna, siamo stati accolti bene con un programma intenso e impegnativo. Inizialmente abbiamo
frequentato un corso di quattro incontri, insieme ad altre coppie che aspiravano all’adozione. In questi primi passi l’impatto psicologico è notevole. Vengono sollecitate certezze e incertezze, bisogni e aspettative. Quelle legittime e quelle no. I dubbi e le paure vanno affrontati con coraggio. Il diritto primario è quello del bambino ad avere una famiglia e non quello della famiglia ad avere un bambino. E’ più facile da scrivere che da vivere profondamente. E’ una verità assoluta, anche per i figli naturali. Ma il genitore adottivo deve porsi di fronte a molte domande e affrontare onestamente se stesso. Il genitore naturale potrebbe non averne pensiero per tutta l’esistenza. Che nomi ha la motivazione che mi spinge? Come ho elaborato il lutto della mia sterilità? Ho accolto la sterilità del mio partner? Dov’è il mio dolore? Alcune coppie sono entrate in crisi, Massimiliano ed io siamo usciti rinforzati. Come coppia e come genitori. Abbiamo conquistato la prima bandierina.

Cassetta degli attrezzi: disponibilità ad entrare in contatto profondo con le proprie emozioni, i propri pensieri, valori, bisogni; apertura ad accogliere i vissuti senza giudicarli; coraggio di mettersi in discussione, di ridefinire le proprie aspettative, di digiunare rispetto ad alcuni bisogni; capacità di concedere lo stesso percorso al proprio partner.

Abbiamo cominciato la seconda fase: gli incontri di coppia con l’assistente sociale e la psicologa dell’Equipe Adozioni. Incontro e attesa. Incontro e attesa. Per un anno e molti colloqui. Infine abbiamo ottenuto l’idoneità all’adozione. Per altre coppie il tempo è maggiore, siamo stati fortunati.

Questa parte di percorso è stata in salita, animata da affiatamento ed entusiasmo ma, anche, da fatiche piccole e grandi. I colloqui erano condotti in serenità, con un’accoglienza benevola e informale ma è stato inevitabile sentirsi sotto al microscopio. Osservati, valutati. Da noi stessi per primi e severamente, a volte. Il rientro a casa ci vedeva attivati in mille pensieri. A volte muti e solitari, a volte condivisi, a volte discussi con dolore, a volte pianti. Accettare di andare benissimo imperfetti, così come siamo, è stata una meravigliosa conquista. Seconda bandierina.

Cassetta degli attrezzi: pazienza (tanta); fiducia; disponibilità a sfogliare le pagine della propria vita; apertura allo stupore nella conoscenza di parti di sé, del partner, della coppia; disponibilità ad accettare i propri limiti e quelli del partner; coraggio; apertura alla scoperta di nuove risorse e di imprevisti talenti; tenacia; memoria del traguardo che si desidera raggiungere insieme.

Depositiamo l’idoneità all’adozione al Tribunale dei Minori dell’Emilia Romagna. Copie, fotocopie, altre fotocopie. La terza fase è il tour burocratico. Noioso ma necessario. Non esiste un centro unico informatizzato  che coordina e comunica la nostra disponibilità ai diversi Tribunali. Dobbiamo inviare noi, una ad una,  l’intera documentazione fotocopiata ad ogni Tribunale dei Minori dei capoluoghi di (quasi) tutta Italia. Ci sentiamo come naufraghi che preparano con cura e affidano alle acque il loro messaggio nella bottiglia. “Noi siamo quì. Conoscete un bambino o una bambina che ha bisogno di una famiglia? Chiamate.” E loro chiamavano. Per conoscerci direttamente, procedura necessaria per accettare la documentazione spedita. E noi andavamo. In tutta Italia. Volentieri, anche se estenuante, costoso e se il lavoro ne risentiva. In questa fase si vive sospesi, in attesa; speri ma sai che potrebbe non accadere nulla. Dubiti. Servirà tutto questo? Il traguardo c’è? Dove, che non vedo?
Dopo 10 mesi il Tribunale di Napoli ci convoca per presentarci una possibilità. Terza bandierina, rosa! Siamo al settimo cielo e non riusciamo a dormire.

Cassetta degli attrezzi: nervi forti; speranza; fantasia e intuizione per orientarsi nei diversi contesti burocratici; tenuta di fronte alle difficoltà, alle delusioni, alle assurdità; disponibilità agli spostamenti; accettazione di essere “fuori fase” con il partner: uno sale, l’altro scende in momenti e periodi diversi.

L’appuntamento per conoscere “il caso” apre il cassetto dei sogni. Immagino sia così quando una donna viene a sapere di esser incinta, dopo averlo tanto desiderato. Parte il film. È una fase delicata in cui il sogno di diventare “quella” famiglia può portare a sottovalutare i bisogni del bambino, della bambina.

Mamma e papà possono avere desideri e disponibilità diverse. Esattamente come in una gravidanza naturale ma non è la stessa cosa. I genitori adottivi non possono permettersi proiezioni private, agende nascoste. E’ importante parlarsi subito, accogliere, lasciare scorrere le emozioni, non fermare, condividere, concordare, aiutarsi reciprocamente a restare con i piedi per terra. Andare con cautela e delicatezza estrema. Per il bambino, la bambina, la madre, il padre, la nuova famiglia che forse ci sarà ma è ancora sospesa e incerta come una bolla di sapone.
Usciamo dal Tribunale di Napoli con la nostra quarta bandierina, immersi in un silenzio vibrante di significati.

Cassetta degli attrezzi: sapere accogliere e gestire le emozioni; onestà nello stilare una “lista della spesa” di bisogni e possibilità della coppia; ascolto e comprensione; solidità di coppia; consapevolezza di valori; coraggio nel raccontarsela giusta. Fino in fondo.

Finalmente arriva il magico, unico momento dell’incontro con nostra figlia. Momento carico di promesse e attese. Una stanza con pareti bianche e quadri a tinte vivaci; un tavolo rotondo, un divanetto, un cesto con libri per bambini e qualche gioco tra cui un orso di peluche, bianco. Le emozioni si accavallano; mi sento serena, gioiosa, poi improvvisamente inquieta. Considero l’ipotesi di andare via, colta da un panico imprevisto. Massimiliano è in silenzio al mio fianco, non riesce a stare seduto e tormenta un mazzo di chiavi nella tasca dei pantaloni. Ogni tanto ci guardiamo, sorridiamo tesi, enigmatici. Cerchiamo le nostre emozioni nell’altro; quelle dell’altro dentro di noi.  Si apre la porta. Prima di vedere chi sta entrando sento le voci di una donna e di una bambina. Non so più se stare seduta o in piedi, se il cuore è fermo o sta per uscire dal petto. Il tempo rallenta, è sospeso. Vedo i suoi capelli neri, gli occhi scuri che ora sta abbassando. Mi sfiora un pensiero di cui mi pento subito: non parla come noi. Lei è grande, ha otto anni, ha la sua storia. Sento il cuore aprirsi, sorrido, sono pronta.

Non è stato un  colpo di fulmine.
L’amore è arrivato dopo, più tardi. Conoscendoci, frequentandoci. So che succede anche a molti genitori naturali, per noi è stato un tormento. Quasi fosse una colpa non essere folgorati. Massimiliano ed io non abbiamo avuto gli stessi tempi di coinvolgimento; anche questo è normale, ci avevano avvertiti. Saperlo, però, non ha alleggerito la fatica. Cercavamo una conferma. Disperatamente.  Sì sì, no no. Non potevamo rischiare incertezze. Il no che sia presto, il sì che sia per sempre.  Una responsabilità enorme per quella creatura che ora aveva un nome e un volto. Abbiamo passato molte notti inquiete. La quinta bandierina ci tremava tra le mani.

Cassetta degli attrezzi: tutte le risorse, ma proprio tutte e apertura all’abbandono, alla gioia, all’amore; coraggio di affrontare le paure e di lasciarsi andare alla fiducia e alla speranza.

Dopo  il primo incontro c’è un periodo di avvicinamento, passano mesi di conoscenza
reciproca, telefonate, incontri, prove di trasferimento, prove di distacco, nuovi equilibri. Arriva la nostalgia, il ricordo del volto, dei gesti, delle espressioni. Arrivano i sorrisi
pensando a lei, mentre faccio altro; il desiderio di rivederla, il bisogno di sentire la sua voce, di sapere come sta. Arriva l’amore.
Arriva il sì! pieno. Gioioso, felice, impaziente. Arriva il giorno in cui andiamo a prendere Francesca per portarla a casa, per sempre. E’ nata una nuova famiglia. Traguardo raggiunto! Inizia la luna di miele.

Cassetta degli attrezzi: pazienza; capacità di autorizzarsi un tempo per la coppia e per i tempi di ognuno; consapevolezza della fase di cambiamento; impegno nel progettare una  nuova famiglia; capacità di favorire l’attaccamento con pensiero riflessivo e orientato; disponibilità a scoprire nuova intimità; capacità di orchestrare nuove modalità per i legami del passato (amici, parenti); disponibilità a lasciarsi aiutare, a non volere fare tutto da soli. Capacità di ridere e di prendere le cose alla leggera; di accettare i propri limiti, la propria stanchezza, la frustrazione, il senso di inadeguatezza. Capacità di dire no a tante persone abituate ai nostri sì. Disponibilità ad accogliere la perdita di anni libertà e di scelte improvvisate (che facciamo stasera? Andiamo al cinema?). E’ strano. Le cose più prevedibili (l’arrivo di un figlio condiziona la vita) sono capaci di sorprenderci e di trovarci impreparati.

In questa fase delicatissima riprende il supporto dei servizi sociali con colloqui di coppia e visite a casa, incontri di gruppo con altri genitori adottivi, incontri tra bambini adottati. Siamo stati aiutati a organizzare la nostra nuova vita, a elaborare le tumultuose emozioni che l’hanno attraversata. La solida rete familiare e di amici ci ha sostenuto nei momenti di sconforto e in quelli di gioia, anche questo è stato fondamentale.

Sono passati sei mesi. La nostra vita ha preso nuovi ritmi, quello che prima era
sconvolgente ora è una piacevole routine. Anche questo, quando le cose vanno bene, è esattamente quello che accade in ogni  famiglia naturale con l’arrivo di un bambino.

Un cambiamento radicale diventa, nel tempo, una nuova ritmica abitudine.

Resilienza. In fisica è la capacità dei materiali di sopportare pressione e deformazione senza spezzarsi; in biologia è la capacità di alcune cellule di auto-ripararsi, tornando allo stato iniziale dopo aver subito un trauma, un danno, una forte sollecitazione. Le persone con una buona resilienza riescono, quando sono immerse in circostanze avverse, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e a raggiungere mete importanti.

La resilienza, tra tutte le risorse della nostra cassetta degli attrezzi, è quella che ci ha aiutato a conquistare, bandierina dopo bandierina, il nostro meraviglioso traguardo.

 

Rigore e dialogo coi giovani, croce e delizia

di Fulvio Baralis, counsellor professionista e formatore Kaloi

Sto iniziando la mia prima lezione in uno dei tanti corsi che svolgo da anni con i lavoratori apprendisti, giovani tra i 18 e i 30 anni. Biologicamente adulti, non sempre nei comportamenti. Quello che ho davanti è un gruppo con bassa scolarità, licenza media; la maggior parte di loro lavora in imprese artigianali: impiantistica elettrica civile e industriale, termoidraulica, installazione dei serramenti ecc.

Oggi è il loro primo giorno d’aula. Un responsabile dell’Agenzia Formativa ha illustrato loro la Legge che regola l’apprendistato, un contratto che prevede l’obbligo – per il datore di lavoro –  di garantire la formazione necessaria ad acquisire (o riqualificare) una professionalità.  I partecipanti sono stati informati sugli orari e le regole di partecipazione al corso.

Ho iniziato la lezione da circa venti minuti quando scorgo nella penultima fila un ragazzo che, mi pare, dorme con la testa appoggiata sul banco. E’ Antonio. Mi avvicino. Qualche compagno sorride. Decido di soprassedere, di aspettare. Redarguirlo potrebbe rompere il clima di attenzione che sono riuscito a suscitare nel gruppo, innescare polemiche e discussioni. I ragazzi di quell’età si mostrano spesso solidali tra loro, fanno squadra a prescindere. Sono poco inclini a rispettare le regole e a riconoscerne la necessità in contesti istituzionali. Sono giovani che hanno alle spalle una storia scolastica difficile e infelice, di bocciature e drop-out (abbandono degli studi).  Mal sopportano le lezioni teoriche e il dover stare seduti e fermi per tante ore.

Passano dieci minuti. Qualcuno si accorge della situazione, guarda il compagno appisolato poi me, come a  scrutare la mia reazione.  Altri sorridono tra loro con aria compiaciuta e beffarda. Approfitto della chiusura di un argomento per intervenire.

“Che fai, dormi?” domando, a due passi da lui. Non si muove ed è una risposta. Il compagno di banco gli dà una vigorosa gomitata e il ragazzo si ricompone stropicciandosi gli occhi.

“Che fai, dormi?” ripeto.

Mi fissa in silenzio, guarda i suoi compagni, sorride e risponde con voce fiacca “Perché? Non si può?”.  Strappa la risata al gruppo, ne è molto soddisfatto.

Segue un dialogo che mette a dura prova la mia pazienza.  Ad ogni tentativo di definire criteri minimi di presenza ad una lezione, Antonio risponde con frasi paradossali: “E cosa dovrei fare?”, “Boh, per quello che mi interessa!”, “Ma per lei cosa cambia se io dormo o meno?”, “Ma che gliene frega a lei?”, “Si legga il giornale, tanto la pagano lo stesso!”.

Resto in questo scambio, tenendo il punto senza alterarmi. Il mio tono di voce, fermo e deciso, rimane comunque molto garbato. D’altronde le sue posizioni e i suoi modi sono assolutamente inaccettabili e stanno pregiudicando il tempo della lezione.

Lo avverto che potrei vedermi costretto a segnalare il suo comportamento ai responsabili del corso e al suo datore di lavoro.  Antonio fa spallucce: “E chi se ne frega! Tanto il titolare è mio zio. A lui non gliene importa niente se io dormo. È lui il primo a dire che tanto qui non si viene a fare nulla!”

Chissà se è vero (povero mondo adulto!).  Oltre a rapidi pensieri sulla realtà educativa e il destino di alcuni “figli / nipoti di…”, mi pongo domande fugaci sulla costruzione della motivazione  nei contratti di apprendistato; su quanto le aziende credano all’opportunità formativa. La vivono come una scocciatura necessaria?

Non c’è tempo per queste riflessioni, non è il contesto in cui affrontarle. Scelgo di chiudere il discorso definendo i limiti della mia disponibilità e dell’ambito formativo che stiamo condividendo.  Mi rivolgo a lui con pacata fermezza, definitiva:
“Antonio, io non ho voglia di discutere con te o con altri dell’ABC dell’Apprendistato, del perché esiste, del perché è previsto un giorno di formazione alla settimana per cinque settimane, delle sue regole o della necessità della buona educazione. Ti ripeto per l’ultima volta che tu, come tutti, sei tenuto a tenere un atteggiamento adeguato al contesto in cui ci troviamo. Punto. Non aggiungerò più altro in merito.”

Antonio apre lentamente le spalle, si appoggia allo schienale e tace. Riprendo la lezione, non senza difficoltà. Alcuni allievi interagiscono proficuamente suscitando, a poco a poco, l’interesse di altri compagni; ogni tanto interviene anche Antonio. E così farà nei successivi incontri, anche se la disciplina non è mai stata il suo forte. Il percorso è proseguito così, alternando coinvolgimento, dialogo, fermezza, richiami quando necessario.  Ed è arrivata l’ultima lezione.

La settimana successiva Antonio è in cortile, in compagnia di altri corsisti. Mi saluta cordialmente, mi avvicina.  “Professore, lo prende un caffè?”

“Volevo scusarmi con lei”, mi dice. “Il corso non mi piace, è proprio inutile, però ci tenevo a dirle che l’ho molto apprezzata. Lei non è come gli altri, non mi ha mai mancato di rispetto, anche quando mi ha sgridato”.

Le sue parole mi hanno riempito di stupore e soddisfazione. Emozioni che proprio gli allievi più impegnativi riescono a dare. Rigore e dialogo possono coesistere e, quando coesistono, portano buoni frutti. Il rispetto delle regole è necessario e va affermato con fermezza ma il tempo e la fatica (perché a volte è proprio una fatica) investiti nel dialogo rispettoso fanno la differenza.

Colloquio genitori a scuola: scontro o possibilità di dialogo?

 

 

Insegno in una classe prima della scuola primaria e durante i colloqui con i genitori trovo difficile parlare dei comportamenti aggressivi tenuti dai loro figli in classe e con i compagni. Spesso i genitori sembrano non credere alle nostre parole e fanno fatica ad ammettere l’esistenza di questi comportamenti.Quale potrebbe essere il modo migliore per comunicare questi eventi e poter affrontare insieme le situazioni di “difficile convivenza” senza creare un blocco nella comunicazione?

Grazie! Alessandra

risponde Maria Nives Delise, insegnante, counsellor professionista, formatrice Kaloi

Cara Alessandra,

apprezzo molto la sua domanda poiché dimostra di essere un’insegnante sensibile a un delicato argomento: la ricerca di un dialogo costruttivo tra genitori ed insegnanti.

Nella mia lunga esperienza di insegnante e formatrice  le difficoltà che lei mi riferisce sono spesso presenti nella relazione tra docenti e genitori, che spesso sembrano sottovalutare le difficoltà comportamentali dei propri figli, soprattutto se piccoli.

Solo se si comprendono le motivazioni di questi genitori è possibile instaurare un clima collaborativo che permetta di affrontare insieme la situazione.

La motivazione di tale atteggiamento ha origine dal desiderio che i propri figli non debbano mai  soffrire, che siano sempre felici e “perfetti”, perché figli di genitori “perfetti”. Razionalmente, si sa, la perfezione non esiste, ma questo non impedisce che si attivino le sopracitate fantasie.

Quando un bambino nasce è per i suoi genitori e parenti il centro dell’universo, come il compianto Pino Daniele cantava: “Ogni scarrafone è bello a mamma soja”; il bambino più bello del mondo, ricco di ogni buona qualità sia fisica che intellettiva, e che conferma le capacità dei genitori.

Questo “sano narcisismo” è un fattore positivo nei primi anni di vita del bambino, in quanto è alla base della costruzione dell’autostima. Con il passare del tempo, però, i genitori devono essere sempre meno disponibili a concedere tutto ai figli, porre dei limiti, delle regole,  in modo da aiutarli a superare le inevitabili frustrazioni che incontreranno sul loro percorso di vita, facilitando così, a partire dalla scuola,  il  primo ingresso nella società dei  piccoli cittadini.

Ma arriviamo alla sua domanda: come parlare dei comportamenti aggressivi dei bambini in modo efficace, senza creare un blocco nella comunicazione con i genitori?

E’ naturale che una comunicazione del genere sia vissuta con dispiacere dai genitori, che spesso e volentieri attribuiscono perciò la causa di questi comportamenti alla scuola, ai compagni di classe, all’incapacità dell’insegnante di gestire la disciplina. Accettare che il proprio bambino ha dei problemi equivale ad ammettere di non essere bravi genitori. E quindi come fare?

La parola chiave è  “alleanza”, e per poterla creare bisogna costruire un rapporto di reciproca fiducia. Come?

Nell’immediato,  incontrerei i genitori di questi bambini in un contesto tranquillo e chiederei loro di parlare del loro bambino, di quali sono secondo loro le qualità e i punti critici, di come si comporta a casa o in ambienti extra scolastici, in modo da comprendere se anche loro hanno difficoltà a gestire la vivacità del bambino. Questo per far capire che l’insegnante non è lì per accusare o giudicare, ma che ha un autentico desiderio di comprendere il bambino e collaborare con la famiglia per lo stesso obiettivo educativo. A questo punto sarà quindi possibile costruire insieme le strategie più adatte a gestire i comportamenti problematici dell’alunno, delle regole condivise, in modo che il bambino sappia che gli adulti, genitori ed insegnanti, sono uniti dagli stessi valori educativi.

A livello preventivo, le consiglierei di proporre ai genitori, durante la prima assemblea di classe del prossimo anno scolastico, un progetto educativo condiviso sul modo e il senso di lavorare sulle regole, tarato proprio sulle problematiche comportamentali degli alunni della classe: proporre alcune regole, quelle che genitori ed insegnanti ritengono debbano essere maggiormente osservate dai  bambini,  da rispettare a casa e a scuola e da sanzionare, se trasgredite, in modo educativo più che punitivo.

Si potrebbe anche lavorare a livello di scuola, e non solo di classe, con progetti ad hoc per il Collegio dei Docenti come “Scuola in Regola” (per approfondire l’argomento, le consiglio di leggere i libri del dott. Gilardi “Insegnanti in Regola” e “Genitori in Regola”, editi da La Meridiana, e di rivolgersi ad uno dei formatori Kaloi presenti nella sua zona)

Aspettando il Natale

 Sono mamma di tre bimbi: Filippo di 10, Giovanna di 7 e Martina di 5 anni. Come ogni anno in questo periodo siamo tutti affaccendati a preparare gli addobbi in casa, oltre a dolci natalizi, piuttosto che le statuine del presepe. Filippo e Giovanna qualche giorno fa mi hanno detto che loro non vogliono credere in Babbo Natale e soprattutto si sono rifiutati di aiutarmi nei preparativi: preferiscono passare il loro tempo guardando la televisione o giocando col telefonino. Sono amareggiata e disorientata…cosa dovrei fare?

Daniela

risponde  Giacoma Di Marco, formatrice Kaloi

Gentile Daniela,

ci si sente disorientati quando cambia qualcosa in famiglia e l’entusiasmo condiviso di un tempo sembra prendere strade diverse.  Lei potrebbe accettare questo cambiamento o attivarsi per fare qualcosa di nuovo, diverso e provare a coinvolgere nuovamente i suoi bambini. In questo caso le suggerisco due momenti.

Osservare, ascoltare, parlare

10, 7, 5. Sono le età dei suoi figli. Filippo e Giovanna le hanno detto che “non vogliono credere” a Babbo Natale.  Non ho davanti a me i suoi bambini  ma è come se vedessi due musetti ombrosi. Sono delusi per una magia svanita? Chiedono di essere “trattati da grandi”? L’improvvisa e irrinunciabile passione per Tv e cellulare ha un tempismo curioso.

Provi a parlare con Filippo, in modo semplice.  Provi ad ascoltare come mai “non vuole credere”.  Forse vorrebbe essere coinvolto come fratello maggiore, più grande, come aiutante in campo di Babbo Natale.  Parli con Giovanna. A 7 anni, generalmente, si ha ancora “voglia di credere”.    Anni fa un bambino chiese come mai, per un suo compagno, erano i genitori a portare i regali . La madre rispose la verità: che Babbo Natale va da tutti i bambini che ci credono; quando i bambini decidono di non crederci più, i genitori portano i doni per lui.  Suo figlio scelse di credere un paio d’anni ancora.  Ascoltare i suoi figli è il punto di partenza per offrire loro un nuovo orizzonte di coinvolgimento, mistero, eccitazione che li faccia sentire protagonisti.

Coinvolgere con gioia e creatività

Gioia, creatività e partecipazione sono tre buoni ingredienti per coinvolgere i figli in attività da fare insieme.  Le propongo qualche idea (vecchia e nuova) e un modo per trovarne tante altre con i suoi bambini. Con un po’ di pensiero, l’attesa del Natale è anche occasione per trasmettere valori. Divertendo e divertendosi.

Il valore dell’attesa. Il calendario dell’avvento è un modo semplice per scandire il conto alla rovescia dell’attesa. Aprire la finestrella può essere un festoso rito familiare del buon risveglio.

Saper aspettare è un valore pedagogico da trasferire, da educare.  E’ il modo per godere appieno della soddisfazione di un desiderio o di un traguardo raggiunto con pazienza, impegno, costanza. Il tutto e subito è un piacere effimero che lascia insoddisfatti, presto annoiati e non allena la tenacia nel perseguire i propri obiettivi.

Scrivere insieme la lettera a Babbo Natale o a Gesù Bambino può essere un momento in cui il bambino viene aiutato a fare piccoli bilanci di buoni comportamenti, una sintesi di ciò che desidera e una minima, realizzabile dichiarazione di buoni intenti per il futuro.

Il mistero e la speranza vanno nutriti. La vita è mistero. L’arrivo di Gesù è il mistero dei misteri. Non è necessario essere credenti per cogliere che l’esistenza è avvolta da qualcosa di più grande. Siamo parte di un universo, c’è un infinito, un Oltre che resta insondabile ma percepito con stupore dall’animo umano. Il periodo natalizio avvicina grandi e piccini al senso del mistero, del magico. La notte. Le stelle illuminano case, alberi, strade. Quella visita durante il sonno: compaiono doni e scompaiono latte e biscotti (ne resta qualche briciola). Se accadesse tutti i giorni sarebbe una follia ma l’eccezionale evento annuale nutre parti importanti dell’anima. Il mistero genera stupore, meditazione, curiosità, immaginazione, intuizione, creatività, poesia. Non sono talenti riservati ai mistici, agli artisti  e ai letterati. Il pensiero scientifico contemporaneo valorizza queste capacità come fondamentali alla ricerca. Credenti e scettici, ad ognuno il suo perché.

Storie lette e narrate, film natalizi sono riti familiari per una ventata di magia e speranza. Qualche idea di film?  Il Grinch, A Christmas Carol, La Vita è meravigliosa, The Family Man, SOS Fantasmi, Il Miracolo della 34a strada, Nightmare before Christmas, Una storia di Natale, Elf…

Preparare e addobbare la casa sono gesti di cura e di accoglienza, come quando si aspetta un ospite importante. Lei potrebbe provare a rendere questo momento più coinvolgente e divertente per i suoi bambini. Può renderli protagonisti delle scelte per le decorazioni. Non sarà tutto esattamente come lei l’aveva immaginato ma l’avrete fatto insieme.

Potreste realizzare con la pasta di sale originali palline per l’albero, statuine per il presepe, porta candele o decorazioni per la tavola. Qui può trovare un semplice tutorial con la ricetta:

https://www.youtube.com/watch?v=Pr-q8s3AkpM

La mia collega Barbara Bravi che gestisce un servizio prima infanzia, ci segnala un link per decori natalizi da fare insieme ai piccoli artisti:

https://www.facebook.com/immaginante/photos/pcb.616559715115514/616559541782198/?type=1&theater

da un’idea di Immaginante – Laboratorio XMAS Design.

Materiali:  coperchi di plastica, stoffe bianche e rosse, immagini ritagliate da giornali e cataloghi, filo di lana, forbici, colla, ago di lana per foro . Facili da realizzare.

Cercate insieme altre idee su internet per realizzare addobbi o dolcetti natalizi!

Essere protagonisti, partecipare e giocare rende tutto più divertente e interessante. Non abbia scrupoli a dare qualche regola per l’uso della TV e del cellulare. Vedrà che le lamentele finiranno quando avranno le mani in pasta!

Buon Natale a tutti voi!

Era mio padre

di Paola Breseghello, counsellor, cultrice di scrittura autobiografica LUA, formatrice Kaloi

Papà sta morendo. Sono al suo fianco, lo osservo mentre riposa.  Ogni tanto si sveglia dal torpore di morfina, è infastidito dal ribollìo della vaschetta d’acqua per l’ossigeno, chiede di eliminare quel rumore. Papà, non ti sembra il suono delle bombole nelle nostre immersioni? Ricordi, papà?  Sembra di essere sott’acqua… Sorride e si addormenta. Sogna sereno, papà! Sogna il tuo mare…

Prendo carta e penna, vorrei fermare pensieri, emozioni, riflessioni. Sto frequentando la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, mi porterà a scrivere la storia della mia vita.

L’imprevisto e repentino aggravarsi di papà arriva lungo questo mio percorso. E’ stato come essere presa in una doppia spirale, una trivella che gira e scende in cerca di frammenti da ordinare, da ricomporre in una figura da guardare con occhi nuovi, adulti.

Era proprio vero?  Mia madre era stata un’eroica educatrice solitaria, mio padre dedito esclusivamente al lavoro e alle sue passioni? Così era tramandato nella nostra mitologia familiare. Ripercorro la strada, cerco di sgombrarla dagli intralci di aneddoti cristallizzati, dai rocciosi ricordi familiari, dalle letture preconfezionate da altri. Scrivo.

E’ notte, ho tre  anni. Sono in braccio a mamma, su quella sedia di fronte alla finestra.  Mi tiene una mano a coppa sull’orecchio che fa tanto male. Sento il suo tepore, mi fa bene. Mi parla e mi distrae.  Papà è fuori nella notte, in cerca di una Farmacia per me.    Messaggio: ci sono per te, mi prendo cura di te insieme a tua madre.  Per quanto stanco, a qualunque ora ci sarò.

E’ domenica a Milano.  Il piazzale sembra enorme, è circondato da alte mura.  Sono attaccata ai vestiti di mamma, i colpi esplodono ininterrottamente. Vedo schiene di uomini divisi da separé, sparano nella stessa direzione.  Uno di loro è il mio papà. Esegue ogni movimento rituale in silenziosa concentrazione. Guarda l’arma, la rigira tra le mani, la carica, tira su lentamente il braccio spostando le gambe così, punta immobile e spara, spara, spara.  Poi riposa e riprende. Più e più volte. E’ intenso, instancabile, attraente, potente, eroico.  Strizzo gli occhi a ogni  colpo di pistola.

Messaggio: sono maschio, sono padre, fatto il mio lavoro ho uno spazio per me, passioni nate prima di te e che ti racconterò, se vorrai. A volte non mi devi proprio disturbare, lo stesso farò con te.

E’ una notte di luglio a Guello, nella nostra casetta nel verde. Siamo tutti e cinque davanti a un televisore in bianco e nero, mi sembra enorme. Papà si agita sulla sedia, si mangiucchia le unghie, si alza e si risiede e continua a ripetere “Pazzesco! Incredibile! Ma vi rendete conto? E’ il sogno dell’umanità da sempre…”.  E’ eccitato, è commosso, non l’ho mai visto così e lo guardo incantata. Più della TV.  Sento attraverso lui che l’evento è straordinario. E’ papà il mio ricordo dello sbarco sulla luna.    Messaggio:  non smettere mai di stupirti, trasmetti il tuo pensiero e le emozioni senza nasconderle, fai vibrare la tua voce della passione che t’accende; solo così lascerai tracce indelebili. Questo è educare.

Sono adolescente e mamma mi racconta una storia di papà.  Un giorno si rende conto che qualcuno, in azienda, ruba dal suo portafogli lasciato nella giacca in ingresso. Progetta un allarme che suona nel suo ufficio appena qualcuno ne tocca le tasche. Pizzica il ladro con le mani nel sacco: un suo dipendente.  Lo licenzia?  No. Lo invita nel suo ufficio e gli chiede come mai lo facesse. Saputo delle sue difficoltà, gli aumenta lo stipendio. Diventerà uno dei suoi collaboratori più importanti. Di queste e altre azioni di aiuto a persone in difficoltà non parlava mai. Se gli chiedevi, si  scherniva borbottando.    Messaggio: ascolta le persone, figlia mia, dai sempre una seconda opportunità. Soprattutto quando hai potere cerca di essere indulgente e dai spazio e azione a quella fratellanza che ci unisce.  Senza tanti discorsi, agisci! e fallo con modestia.

Sono in cucina a fare i compiti, mamma è ai fornelli. Arriva papà, la abbraccia allegramente, la chiama “bagigia”, le palpa il fondoschiena, la bacia sul collo. Mamma finge di divincolarsi dicendo “cosa fai?” ma io vedo che è felice, così lo sono anch’io.    Messaggio: ama con passione, gioia, gioco e allegria, figlia mia. Non avere paura della tenerezza e dell’intimità. Non essere imbarazzata dell’amore gioioso davanti ai tuoi figli. Questo è educare.

Siamo in gommone, papà timona a tutta birra con espressione goduta, guardandosi  intorno.  Quando vede qualcuno fermo in mezzo al mare fissa il suo sguardo.  Nel dubbio rallenta, inverte la rotta, si avvicina e chiede “tutto bene?”  Fa lo stesso sciando, quando vede persone a terra. Lo stesso per strada, con le automobili a cofano alzato. Quante soste, con lui!     Messaggio: non siamo soli, figlia mia. Ci si aiuta e non si abbandonano le persone in difficoltà. Se puoi fare qualcosa, se sai fare qualcosa, mettiti a disposizione. Siamo tutti fratelli.

E’ capodanno a Moena, all’Hotel Leonardo.  Come ogni anno il rito si ripete piacevolmente sempre uguale.  Dopo i canti alpini sotto l’albero di Natale, ecco l’ultimo dell’anno. Le bottiglie di Ferrari in mano agli uomini, le esplosioni vivaci dei tappi a mezzanotte, i baci, gli evviva e i tavoli spostati sul fondo della sala.  Musica. Come sempre, è papà ad aprire le danze, il primo valzer con la signora Paola. Poi fa ballare le altre signore, per tutta la notte.     Messaggio: amo la vita, la gioia, la musica, il canto, la spensieratezza, la natura, i valori della montagna.  Amo stare con la gente, con persone care in luoghi cari, ridere, danzare. Ama tutto questo anche tu.

Ho preso la patente da pochi giorni e papà mi porta in garage. Mi insegna a cambiare una gomma bucata (mi raccomando! stringere a stella!); mi parla del livello dell’olio, del bollo, dell’assicurazione, del libretto, della constatazione amichevole, degli indicatori da tenere sotto osservazione. Mi dice “comprare un’auto è niente, i conti si fanno sul mantenimento…”. Mi sento grande, responsabile, importante, libera…    Messaggio:  ti dono ali forti rendendoti autonoma, ti insegno a saper fare da sola, mi fido di te, ce la puoi fare. Lascia perdere questa faccenda delle “cose da maschi”, è una stupidaggine.

E’ un periodo di crisi economica, uno dei tanti in Italia.  Papà è alterato, non ricordo perché. Forse fatture non pagate o nuove tasse.  A un certo punto esclama “Non ho paura, neanche del peggio! Ho avuto nulla, ho avuto molto, posso tornare al nulla! Basta che mi lascino un cacciavite e io ricomincio tutto da capo!”.   Messaggio:  la forza sei tu, figlia mia, quello che sei e sai.  Resisti e non avere paura. Puoi sempre ricominciare. Anche se perdi tutto, non perderai te stessa. Qualcosa succederà.

La storia che pensavo di conoscere è stata ri-scritta.  Una storia di valori e di educazione. Pochi dialoghi,  pochi discorsi (lasciati a mia madre). Era mio padre.

Un talento in crisi

Mio figlio Lorenzo di 15 anni gioca a calcio, è portiere in una squadra locale e tutti noi, allenatori e dirigenti compresi, crediamo possa avere un futuro in questo ruolo. Da qualche mese, però, lui non vuole più andare al campo, inventa scuse di ogni tipo per non allenarsi e anche in partita fa errori che prima non faceva. Cosa devo fare? Non voglio che abbandoni e rinunci a questa grande opportunità. Lui ha un grande talento.

Giovanna

risponde Lucilla Rizzini, life-career & sport coach

Cara Giovanna,

nella sua lunga lettera mi dice che Lorenzo ha iniziato ad allenarsi a 5 anni quando, vedendolo giocare con gli amichetti, avete intuito in lui la stoffa del portiere. Ha mani grandi, è naturalmente abile negli scatti, sa pre-vedere dove andrà la palla, molto raramente sbaglia. Mantiene la rete inviolata e porta la squadra alla vittoria. Negli ultimi dieci anni ha allenato la forza fisica con una gioiosa ed entusiastica pratica quotidiana.

Sembra che Lorenzo sia dotato di un talento. Allenatori e dirigenti confermano la vostra intuizione.

Presso gli antichi popoli del Mediterraneo il talento era un’unità di misura di peso (circa 35 chili) e di denaro, metallo prezioso pesato.  Un talento d’oro o d’argento era una ricchezza importante che gravava di responsabilità chi la possedeva. Nella
parabola del Vangelo viene premiato chi ha utilizzato i talenti di denaro ricevuti in custodia, facendoli fruttare. Viene criticato chi  li ha sotterrati, per non correre rischi.

Il talento sportivo (qualunque talento) è una dote innata. Se ne è provvisti in modo naturale, se non c’è non si può imparare. E’ un nostro punto di forza che viene riconosciuto dall’esterno, qualcosa di più profondo di una capacità, una parte di sé più radicale della passione.  E’ un valore che non dovrebbe essere disperso ma fatto gemmare e fruttare.

E’ meraviglioso poter individuare nell’infanzia la capacità, il talento che contraddistingue i propri figli. Per un ragazzo, però, può essere una responsabilità gravosa perché non ha gli strumenti per gestire questa dote, per incanalarla lungo la strada che tracci il suo destino di persona adulta.  Lorenzo sarà un eccellente giocatore amatoriale o un campione? Il calcio sarà la sua professione, la sua realizzazione?  Il ruolo degli adulti nei confronti dei giovani talentuosi è fondamentale, delicato e complesso.

Lorenzo è anche dotato di vocazione. Ha sempre giocato, sino a qualche mese fa, con passione, affrontando di slancio gli impegni sportivi. Con entusiasmo, ispirazione, costanza e divertimento.

Talento e vocazione: la stoffa del campione.

Ed ora che succede? Lorenzo è in crisi, “inventa scuse di ogni tipo”, “fa errori mai fatti prima”, “non vuole più andare  al campo per gli allenamenti”. E’ de-motivato. Né il successo, né la prospettiva di fama (e guadagni) sportivi, né la gioia di giocare con amici sembrano muoverlo più verso il campo da calcio. Verso quegli impegni e fatiche che ha affrontato, con gioia, per tanti anni.

Come atleta e coach sportivo so che i momenti di crisi come quelli di Lorenzo hanno una loro storia, possono avere significati diversi ed esiti opposti. A volte sono occasione per ritrovare radici forti, per proseguire con maggiore determinazione, affrontando le fatiche e le difficoltà richieste dall’impegno sportivo; a volte, al contrario, sono opportunità per riconoscere di appartenere ad altro,  per ridefinirsi e orientarsi verso una propria direzione più autentica. Sono momenti di vita difficili da affrontare nella solitudine del proprio disorientamento, spesso emozionalmente ambivalente (desiderio e rifiuto, amore e odio). Richiedono un affiancamento, un accompagnamento.

Lorenzo ha 15 anni, non è un adulto. A maggior ragione ha bisogno di qualcuno che sappia esserci, nella giusta misura.  Sarebbe triste che Lorenzo proseguisse, a tutti i costi, “per fare contenti i genitori” (gli allenatori); sarebbe, d’altronde, un vero peccato che abbandonasse un’attività appassionante per una crisi che potrebbe avere “solo” bisogno di ascolto, sostegno e incoraggiamento per essere superata.  Lorenzo ha bisogno di una guida, un mentore che illumini il buio del suo disorientamento. Forse potreste essere voi genitori, forse no. Dipende dalla storia della vostra relazione, che non conosco. Da come vi porrete con lui. Dipende dal fatto che, in ogni caso, è difficile vedersi chiaramente di fronte ai genitori: anche il figlio più “difficile” vorrebbe accontentare e rendere orgogliosi mamma e papà. Non deluderli.

Voi genitori potreste provare a porre a Lorenzo (con cuore aperto) due semplici domande: cosa ti rende felice, in questo momento? Cosa ti farebbe alzare, senza sforzo, alle 5 del mattino?

Questo aiuterà lui e voi a comprendere le sue priorità, in questo passaggio di vita. Gli stimoli legati alla passione, alla felicità sono quelli più interni, profondi, che guidano le nostre scelte.

Lorenzo parlerà del suo sport? Di una ragazza? Degli amici? E’ un adolescente, è bene ascoltarlo e accoglierlo. La parte più difficile viene dopo, se la risposta non fosse quella attesa.

Giovanna, lei potrebbe scoprire che Lorenzo ha ancora entusiasmo in quello che fa ma ha (solo) bisogno di allentare i ritmi, di dare spazio ad altre dimensioni di sé. Potrebbe scoprire che il passaggio alle superiori ha posto nuove sfide che Lorenzo vuole fronteggiare, distribuendo energie tra impegni diversi e importanti.

E’ meglio spingere, assecondare, imporsi o lasciar fare?  Una risposta buona per tutte le situazioni non c’è.  Potrebbe domandarsi, in tutta onestà: chi vuole che Lorenzo diventi un campione? Di chi è questo obiettivo? e orientare le sue scelte in base alla risposta. Accettando responsabilità, opportunità e rischi di ogni possibile scelta.

E’ naturale e giusto che siano i genitori a definire i sogni, gli obiettivi e i percorsi dei propri figli, quando sono piccoli. E’ altrettanto naturale e giusto trasferire nelle loro mani la capacità, la libertà e la responsabilità di definire e perseguire i propri sogni e progetti di vita adulta. E’ un processo lento e progressivo. Lorenzo non è più un bambino ma non è ancora adulto. Lei, Giovanna, ha molte direzioni possibili verso cui orientarsi.

Potrebbe scegliere di ripercorrere, in una chiacchierata con Lorenzo (magari di fronte ad un album di fotografie), la storia e i passaggi della sua passione sportiva; questa “ricostruzione” potrebbe aiutarlo a ricordare (riportare al cuore) i suoi valori, le sue motivazioni profonde. Potrebbe sostenere Lorenzo, incoraggiarlo a resistere, tenere duro, accettare la fatica e le rinunce, in funzione di una prospettiva che solo lei – come adulto – può intravedere. Al contrario, potrebbe sentire che è il momento di mollare. Lasciar fare, lasciare andare le cose e osservarne le evoluzioni, con fiducia. A volte è la scelta più saggia e lungimirante. Potrebbe scegliere di parlare con gli allenatori e affidare (soprattutto) a loro il compito di accompagnare Lorenzo in questa fase. Oppure potrebbe imporsi, se crede, accettando opportunità e rischi di questa scelta. Suo figlio, fra 20 anni, la ringrazierà? E’ possibile, come no. Potrebbe concordare, con Lorenzo, obiettivi intermedi: quest’anno mantieni l’impegno preso con tutta la squadra, poi faremo il punto.

Le ho indicato alcune direzioni, solo lei può scegliere: in quale si riconosce di più?

La ringrazio della condivisione e resto a disposizione dei vostri passi.

Buon cammino!

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