L’autoefficacia per raggiungere i propri obiettivi

di Francesco Venturini, medico psicoterapeuta e formatore Kaloi

Capita a tutti di desiderare il raggiungimento di un obiettivo o la realizzazione di uno scopo. E quando obiettivi e scopi vengono raggiunti, possono anche portare ad un miglioramento della qualità della vita. Gli obiettivi possono interessare vari ambiti dell’esistenza di una persona: traguardi di studio, obiettivi professionali, il miglioramento della propria salute, il raggiungimento di una buona prestazione sportiva e così via. Spesso però i desideri… restano desideri e a questi si sostituisce il rimpianto per non essere riusciti a realizzarli. L’incapacità di realizzazione può essere dovuta ad una sensazione di sfiducia nella propria persona e nelle proprie capacità, spesso anche per la presenza di convinzioni “limitanti” che ostacolano l’intraprendenza nell’agire e che possono risalire all’età giovanile. Molte persone infatti riescono a riconoscere nel fondo del proprio animo la presenza di un sottile sentimento di autosvalutazione, di sensazione di doversi accontentare, di essere esclusi dal “gioco” perché… non si è bravi abbastanza o capaci come gli altri. Questo sentimento può contribuire a far nascere un senso di sfiducia e di “impotenza appresa”.

Riuscire a “sganciarsi” da questo costrutto e cominciare ad “osare” sono i primi passi da muovere per riuscire a raggiungere un obiettivo. Quindi, se abbiamo un desiderio di miglioramento nella nostra vita non indugiamo troppo nel rimuginare ma cominciamo ad agire con determinazione!

Per riuscirci dobbiamo all’inizio cercare di capire quali sono i pensieri che ostacolano l’entrata in azione dei nostri comportamenti efficaci, tenendo presente che spesso non è facile comprendere quali siano e come determinino il nostro stato d’animo, perplesso nell’agire se non sfiduciato già in partenza. Con un lavoro personale, fatto anche di riflessioni, di letture, di partecipazione a gruppi o con l’aiuto di un professionista è possibile disinnescare queste convinzioni limitanti ed avviarsi verso il successo.

Infatti, per giungere a questo non è solo importante avere una buona autostima ma serve anche una buona Autoefficacia; essa consiste nel saper padroneggiare le abilità e le competenze che servono per giungere al risultato voluto, ma anche a poter superare situazioni difficili che la vita a volte presenta.

Per Autoefficacia intendiamo la convinzione di poter fronteggiare e affrontare efficacemente certe prove, di sentirsi all’altezza di superare determinati eventi, di affrontare dei compiti specifici e soprattutto di essere capaci di impegnarsi a fondo in quelle attività che permettano di raggiungere lo scopo: quanto più si è capaci di influenzare gli eventi tanto più si riesce ad influire sul percorso che può portare al risultato desiderato. Lo psicologo americano Albert Bandura ha introdotto il termine Autoefficacia, definendola come “la convinzione di essere in grado di organizzare e realizzare le azioni per gestire adeguatamente le situazioni che si incontrano in un particolare contesto in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati” e anche “le convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati”.

L’Autoefficacia è dunque quella dimensione della personalità che permette all’individuo di porsi dei traguardi, di perseguire il loro raggiungimento con azioni appropriate e di riuscire ad automotivarsi per raggiungere lo scopo. Tutto questo richiede la capacità di coltivare l’autocontrollo e l’autoregolazione. Il “senso di Autoefficacia” risulta utile soprattutto nelle situazioni nuove o complesse, che possono anche portare a cambiamenti positivi nella vita: saper affrontare adeguatamente questi frangenti richiede il conoscere le abilità che si possiedono, sapere come fare ma soprattutto essere convinti di poterle utilizzare al meglio.

Essere Autoefficaci non significa infatti possedere un numero notevole di competenze, ma essere capaci di utilizzare efficacemente le competenze possedute, anche se in quantità ridotta. Essere consapevoli della propria Autoefficacia ha anche un’influenza sugli obiettivi che le persone vogliono perseguire: tanto più sono convinte delle proprie capacità (cioè tanto maggiore è il loro senso di Autoefficacia), tanto più saranno importanti gli obiettivi che sceglieranno. Non solo: sarà maggiore anche la perseveranza e la tenacia con cui porteranno a compimento l’azione. Sotto questo punto di vista, l’Autoefficacia aumenta l’Autostima in un circolo virtuoso.

La fiducia nelle proprie capacità ha dei risvolti positivi anche sul senso di controllo in diversi fronti personali: dal controllo delle emozioni, dei comportamenti in famiglia, sul lavoro, sul miglioramento della propria salute, fino a riuscire a trasformare situazioni da sfavorevoli in favorevoli. L’avere una buona efficacia personale porta ad un benessere psicologico e fisico, al successo professionale, al saper attuare strategie di cambiamento.

Possiamo delineare due tipi di persone: quelle che hanno una bassa Autoefficacia e quelle che invece l’hanno alta.

Le persone che hanno un basso senso di Autoefficacia hanno basse aspirazioni e si accontentano di quello che già possiedono, cercano di evitare i compiti difficili perché si sentono incapaci di affrontarli e portarli a termine, non riescono a cogliere le opportunità che la vita propone e rinunciano facilmente quando incontrano delle difficoltà. In questi casi, un lavoro personale può essere rivolto a rinforzare la persona stessa e il suo senso di efficacia con appositi interventi psicoterapici.

Diverso è l’approccio alla vita di chi possiede un’alta Autoefficacia: innanzitutto si sente capace di controllare quello che succede e ha alte aspirazioni. Quando si pone un obiettivo persevera per raggiungerlo ed è capace di affrontare gli stressors che la vita gli pone davanti. Non solo: in presenza di ostacoli raddoppia l’impegno e non si abbatte facilmente. Infine, ma non ultimo, viene poco colpito dalla depressione.

Ottimismo e Autoefficacia sono legati: la persona ottimista vede più ampliate le proprie possibilità e capacità; inoltre, sia l’ottimismo che l’Autoefficacia orientano l’individuo al benessere, essendo questo dipendente anche da una visione positiva della vita. Cominciare a prendere in considerazione le proprie credenze di efficacia, dopo aver modificato le credenze limitanti, porta a una migliore conoscenza di sé e delle proprie caratteristiche positive. Fa definire i punti di forza della persona stessa e la spinge verso il cambiamento.

Le persone dotate di un buon senso di autoefficacia possiedono delle caratteristiche:

– individuano obiettivi realistici da raggiungere per migliorare la loro situazione;

– hanno fiducia nelle proprie capacità;

– sono convinte della possibilità di ottenere un successo;

– si attivano per raggiungere uno scopo e ricercano sostegno sociale.

La capacità di essere autoefficaci può essere sviluppata e aumentata seguendo queste 5 regole :

1 – Sentirsi padroni delle proprie competenze. È la qualità più potente: essere consapevoli delle proprie capacità, oltre ad aumentare   l’autostima, rende più sicuri di sé, fiduciosi nelle possibilità di raggiungere un obiettivo o di attuare un cambiamento e poi mantenerlo.

2 – Trovare degli esempi di persone che possono aiutare il rinforzo delle azioni. È questo il cosiddetto processo di “modeling”, secondo il quale il comportamento può essere “modellato” sull’esempio di persone che hanno vissuto le stesse esperienze o difficoltà superandole con successo.

3 – Rivedere il significato attribuito agli eventi. Spesso per motivi culturali o per una visione pessimistica dell’esistenza gli accadimenti della vita sono vissuti in modo passivo e quasi fatalistico, senza scorgere in essi la possibilità ad un cambiamento positivo.

4 – Lavorare su se stessi con la persuasione. Il consolidamento del senso di autoefficacia avviene anche con un’opera di convincimento esercitata su se stessi, allo scopo di aumentare la perseveranza, rinsaldare le proprie decisioni ed evitare cedimenti.

5 – Sapere gestire gli stati affettivi negativi. Anche trasformandoli in occasioni di crescita e cambiamento in meglio. La persona consapevole della propria autoefficacia può affrontare con una prospettiva diversa anche avvenimenti logoranti e momenti difficili perché in se stessa sa ritrovare risorse per superarli.

Non dimenticando che l’uomo è un “animale sociale” e ha bisogno dei suoi simili, coltivare l’Autoefficacia vuol dire essere capaci di autoregolazione. E questa porta ad esiti vincenti!

AAA Pedagogista Cercasi: mondo scuola e nuove emergenze educative

di Arianna Ferlin, pedagogista e formatrice Kaloi

A chi ha la buona abitudine di leggere quotidiani o articoli sul web non sarà sfuggito il recente sondaggio, presentato dall’Ordine degli Psicologi del Veneto, in cui i cittadini della regione si sono espressi a favore della presenza permanente della figura dello psicologo all’interno delle scuole (oltre il 60% degli intervistati). Così, visto che qualsiasi notizia che contenga la parola SCUOLA accende in me una irrefrenabile curiosità (e, diciamocelo, anche una trepidante speranza in un suo futuro migliore), mi sono resa conto che questi articoli si prestavano a farmi riflettere su più fronti: da una parte sono felice che la scuola sia un tema “sulla bocca” di molti e che si ritorni a pensare e a valutare quali siano le necessità di un’istituzione spesso bistrattata dai politici di turno e da una società che non ripone più in essa le proprie speranze  (anzi, spesso la vede come un contenitore in cui scaricare le proprie “colpe”); dall’altra parte, però, mi ritrovo, da pedagogista ed ex insegnante, a pensare a quanto il mondo della scuola stia perdendo la bussola che l’ha sempre fatta navigare in mari più o meno tempestosi: l’educazione.

Dov’è finita l’educazione, quell’orientamento pedagogico che è azione e pensiero assieme?

 

Quando è stata messa in soffitta prediligendo la clinica e la tecnica didattica? Non fraintendetemi, amo la psicologia e ritengo sia una scienza importantissima per rendere completa una riflessione globale sui meccanismi che coinvolgono la scuola e chiunque ne faccia parte…ma la psicologia nulla può, se a muovere i fili non vi è la didattica viva, quel profondo bisogno di mettere al centro la relazione, la reciprocità e di vedere ogni studente e ogni insegnante nella sua unicità e al tempo stesso nella sua globalità!

Probabilmente anche per questo lo scorso dicembre è finalmente venuta alla luce la Legge 2443 (Legge Iori), che sancisce riconoscimento professionale, regolamentazione e tutela alla professione di educatore e pedagogista, professioni dalle origini antichissime, ma che hanno dovuto attendere il 2017 per vedere riconosciuta “ufficialmente” la propria importanza .

Ciò che è certo è che la Pedagogia non ha atteso un Decreto per operare laddove vi è più bisogno di lei: la scuola! Una scuola che al giorno d’oggi si trova davvero in una situazione di emergenza educativa e i numerosi fatti di cronaca ne sono la dimostrazione (accanto ad alunni con disabilità, vediamo il dilagare di episodi di bullismo, le difficoltà di alunni con disturbi dell’apprendimento, ADHD, svantaggio socio-economico, linguistico, culturale e l’altalenante integrazione di studenti stranieri). Insomma, la scuola è davvero messa a dura prova! Ma possiamo anche dire che la scuola nasce proprio da e per questo: se tutto fosse facile, se esistessero solo studenti “perfetti” (utopia fortunatamente irraggiungibile!) non avrebbe motivo di esistere, visto che l’ideale educativo che persegue per sua natura è quello di creare, per dirla alla Lombardo Radice, “personalità umane complete ed originali”. Questo sarà possibile solo se la scuola spalancherà le porte alla pedagogia, quotidianamente, senza grosse rivoluzioni, ma compiendo piccoli passi, giorno dopo giorno, verso la comprensione dei reali bisogni formativi di bambini e ragazzi, bisogni che sono in continua evoluzione, travolti dai vorticosi cambiamenti sociali, economici, culturali, digitali… generazionali!

Ecco allora che i pedagogisti e gli educatori, quando verrà data loro la possibilità di vivere quotidianamente l’esperienza scolastica come parte integrante del sistema scolastico, potranno affiancare (senza mai sostituire) gli insegnanti, nella creazione di programmi didattici e progetti calati sulla reale necessità educativa e preventiva; solo così potranno mirare a sviluppare davvero le potenzialità degli studenti, perché i loro sono progetti nati dall’osservazione, dall’esperienza concreta, dalla formazione continua e dall’aver rivolto lo sguardo proprio alla meravigliosa, seppur complessa, globalità e unicità di ciascuno!

Insomma, nella pratica può davvero essere utile alla scuola la figura del pedagogista? Io credo fermamente di sì! Poiché la pedagogia converge per sua natura verso la scuola, attraverso  azioni educative che facilitino il percorso di apprendimento, la consulenza alle famiglie, l’orientamento dei ragazzi nella scelta del loro futuro, la progettazione di interventi di prevenzione del disagio e della dispersione, l’individuazione precoce delle difficoltà di apprendimento, la stesura di PDP calati sullo studente a partire dai suoi punti forza e da obiettivi realistici e monitorati nel tempo.

La nostra scuola ha bisogno, più che di essere “curata”, di essere guidata, sostenuta, progettata!

Forse tutte queste parole hanno aggiunto ancor più domande su cosa rappresenti oggi la figura del pedagogista. Se così fosse ne sarò contenta, perché solo ponendoci nuove domande si potrà dare vita ad un nuovo modo di concepire la scuola, che  potrà tendere ad un grande obiettivo, ovvero (“rubando” una citazione a Jean Piaget) “creare uomini che sono capaci di fare cose nuove, e non semplicemente ripetere quello che altre generazioni hanno fatto”.

Educare o sopravvivere? Il tempo che dai è la qualità che ricevi

di Fabio Olivieri, pedagogista, counsellor rogersiano, dottorando in teoria e ricerca educativa, Università di Roma Tre

TYP-463111-4788799-genitori“Ci risiamo. Ogni volta la stessa storia!” è il grido funesto di un genitore alle prese con l’ennesima ramanzina. Sembra ci sia un sottile sadismo, da parte dei bambini, nel far rimbalzare come una gomma ogni richiesta avanzata dal mondo adulto. Sono sicuro che molti tra noi sono convinti che i bambini scelgano sempre il momento meno opportuno, ci sfidino, vogliano mettere a dura prova la nostra pazienza.

Eppure tutto questo non è che la somma di intenzionalità presunte, attribuite dai genitori ai propri figli. E dagli educatori ai propri educandi. Pensarli come stati mentali dell’altro ci induce a muoverci e ad agire come fossero reali. Ignoriamo che certi comportamenti appartengono al normale decorso evolutivo, e li trasformiamo in tratti stabili della personalità del bambino, in qualche modo cristallizzandolo all’interno di condotte che saranno poi oggetto di valutazione da parte del mondo e arricchiranno quadri diagnostici sempre più ampi e capaci di includere ogni minima deviazione dagli standard prefissati. La sensazione che ne traiamo è che si cerchi insistentemente una giustificazione coerente e legittima, addirittura scientifica, per non ammettere l’incapacità educativa che come un’epidemia sembra aver infettato il mondo adulto di questo millennio.

Stiamo sostituendo l’anamnesi sanitaria all’autocritica.

TempoNon abbiamo il coraggio di riconoscere i limiti, oggettivi e soggettivi che viviamo in quanto esseri vulnerabili, cui nessuno ha mai insegnato come si educa un altro individuo in carne ed ossa. Non riusciamo ad ammettere che gli spazi di disponibilità da parte del mondo adulto si sono drasticamente ridotti. Che i frammenti di tempo che abbiamo a disposizione non vengono più investiti in  momenti familiari utili a costituire i ricordi infantili dei nostri figli una volta divenuti adulti. Il tempo dell’educare è predato dalle incombenze del vivere e dalla spoglia superficialità del sopravvivere. È vero, c’è il lavoro e l’esigenza di garantire le risorse necessarie alla crescita dei nostri figli. Un tempo produttivo che ormai si espande oltre il terzo della giornata e che ci richiama continuamente alla necessità e alla logica delle emergenze. Queste ultime, sempre più numerose, rischiano di trasformare l’eccezione in ordinarietà. Rischiano di sostituire la pianificazione e la progettualità educativa con formule alla buona, traballanti, derivate dal senso comune o dall’ultimo best seller di Lucia Rizzo (s.o.s. Tata). Ciò che resta da questa sottrazione di senso sembra essere inghiottito dall’universo dell’Entertainment con i suoi inviti rassicuranti, seduttivi, al limite della banalità e riconducibili al trinomio: sesso, morte e denaro.

Abbiamo imparato a pensare i nostri figli con le parole di altri, gli esperti di turno, col risultato che ci resta sempre più difficile coglierne l’eccezionalità. I bambini, per parafrasare Gilardi, autore del libro “Ho un sogno per mio figlio”, diventano esseri “ fatti così!”, nella stupefacente ed imprevedibile lotteria genetica della vita. Avere un figlio educato e responsivo alle regole viene percepito come una provvidenza della dea bendata. “Accettiamo di tutto, purché ce ne diate uno ben educato! ” questa è in fondo la nostra richiesta, più o meno implicita. Il processo educativo non è più qualcosa che si adempie nell’incontro, ma diventa patrimonio individuale del soggetto, che la Natura magari ha beneficiato con un cervello più funzionale e responsivo di un altro. Accettare la dotazione genetica senza alcun contributo diretto da parte nostra significa spostarsi dal vivere al sopravvivere. Se il primo ci interessa e ci impegna con le nostre qualità uniche ed originali, chiedendoci di rinnovarci nell’immanenza del nostro esperire, il sopravvivere, ci seduce con il suo lasciar correre. Perchè in fondo ce lo meritiamo anche, dopo una dura giornata di lavoro!

Ma cosa accade quando le giornate si rincorrono l’una dopo l’altra, senza lasciare spazio alla riflessione consapevole? Ci ritroviamo ad essere vissuti più che a vivere. E i figli, al pari nostro, si adeguano a questo ritmo, nell’infaticabile sforzo di comprendere il mondo e di attribuirgli una certa coerenza, malgrado siano orfani di significati.  Accettiamo  il nostro essere al mondo come qualcosa di scontato, che segue i binari che qualcuno ha tracciato secoli prima per noi, oppure decidiamo di affidarci alla corrente del momento, quella più in auge.

In questo clima di deriva totale i bambini tentano di recuperare il nucleo significativo e pulsante del loro divenire originario. Leggono la ricchezza che gli si prospetta innanzi e non riescono ad associarla in alcun modo all’inedia apatica che vedono riflessa nel mondo adulto. Un mondo adulto che ha deciso di sottrarsi all’impegno familiare che dovrebbe costruirsi ancor prima di dare alla luce I figli. Un proposito che dovrebbe vivere quotidianamente nella capacità di essere, prima tra coniugi, rinforzo, conforto, cura e attenzione. Educare non è delegare alla scuola, né all’uomo nero di turno. Richiede un tempo dedicato. Educare è prima di tutto un esserci-nella-relazione. Imparare a nutrirla dall’interno. E’ un atto di responsabilità che coinvolge due o più soggettività che, incontrandosi nella loro intima essenza dialogante, cedono e guadagnano qualcosa in più. Perché al di fuori delle tecniche, delle scienze, degli strumenti, delle competenze, quel che resta è il volto umano in cui ci siamo imbattuti. Mentre le parole sfumano, come ci ricorda il sociologo francese Edgar Morin, il loro contributo nell’aver aperto nuovi canali di senso resta eternamente ancorato in noi. Ci supporta nelle nostre evoluzioni temporali, ricordandoci che l’umano necessita di umanità per poter vivere al mondo come tale.

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E allora, come fare se il tempo che ci resta è soltanto una parentesi di inattività? Indubbiamente è necessario lavorare dapprima su questo. Su quali siano realmente i nostri obiettivi di crescita e di traguardo nella maturità. Non sempre la famiglia vi trova spazio. Ma è fondamentale dircelo, quando questo accade, perché mettere al mondo nostri simili non è un obbligo, ma un atto libero e volontario. Una scelta che non si ripercuote soltanto su di noi, ma sull’umanità.

L’educazione infatti, proprio perché dialogico-relazionale non è mai una questione privata, è sempre pubblica e sociale. Come amo ricordare ai genitori che incontro: “Il rompiballe che la mattina al bancone del bar occupa tutto lo spazio mentre shakera col gomito il tuo cappuccino… è sempre FIGLIO di qualcuno!”.

Posta questa prima e necessaria condizione, sarà allora possibile guardare oltre. Comprendere che un essere umano è qualcosa di più che una semplice pianta grassa cui dare dell’acqua di tanto in tanto. La conoscenza della complessità del nostro sistema biologico e nervoso dovrebbe, a mio avviso, costituire la prima regola aurea di ogni intervento educativo, professionale e non. A nessuno verrebbe in mente di mettere le mani sul motore della propria auto senza possedere competenze di meccanica! Allo stesso modo, non possiamo pretendere di accompagnare lo sviluppo dei nostri bambini ignorando la loro (e la nostra!) biologia essenziale. Ritengo sia un atto di profonda ingiustizia togliere agli uomini o alle donne di domani la possibilità di desiderare di essere pienamente se stessi, per dirla con Rogers, e di contribuire positivamente al destino del mondo con i loro pensieri, sentimenti, intuizioni e invenzioni. La vita ha necessità di rinnovarsi continuamente per non cedere alla sopravvivenza. E noi adulti, genitori ed educatori, abbiamo il dovere morale di fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità per favorire il compimento di un tale processo. Necessitiamo allora di una preparazione adeguata a livello di competenze biologiche e relazionali. Perché le stesse dovremmo renderle oggetto di apprendimento per i nostri figli. Frequentare un percorso di crescita a livello individuale e di coppia, ancor prima che familiare. La preparazione alla genitorialità e alla vita sentimentale dovrebbe essere garantita come diritto/dovere da ogni municipalità pubblica e non restare appannaggio del solo ambiente religioso. Abbiamo bisogno di rifondare il modo in cui stare in famiglia e nel mondo. Occorre promuovere una socialità generativa, solidale e vitale e per farlo dovremmo ripartire daccapo, dall’origine e dalla conoscenza della materia che ci rende umani, per poi arrivare a comprendere il modo in cui funzioniamo ed infine proporci in qualità di figure capaci di costruire un futuro dignitoso per i nostri figli. Dove il tempo non sia più una margherita da sfogliare (ce l’ho/non ce l’ho) ma l’intento esplicito di voler testimoniare, attraverso la relazione, la ricchezza esistenziale dell’altro, che mi completa e mi significa come adulto del genere umano.

Per approfondire le tematiche introdotte dall’autore, consigliamo la lettura del suo libro recentemente pubblicato “EDUCAZIONE E NEUROBIOLOGIA. Cervello, empatia e processi morali”, edito da Aracne editrice.

copertina libro Olivieri clicca sull’immagine per saperne di più…

Blue whale, Hacker Pedofili, Medicinali Assassini… che fare?

di Gregorio Ceccone, educatore e formatore Kaloi

Arriva la notizia SHOCK che TERRORIZZA tutti!

Metabolismo lento? Scopri come perdere 2 taglie in 2 settimane!

Il bimbo inizia a respirare malissimo, poi arrivano i dottori: quello che scoprono è SCONVOLGENTE!

In questo articolo troverete la soluzione a TUTTI questi problemi!

 

Se cercate informazioni e notizie online o sui social media, sicuramente questi titoli vi suoneranno familiari. Ora che chiunque può pubblicare informazioni on-line semplicemente tramite smartphone, tablet o computer, sta diventando sempre più difficile riconoscere un’informazione fasulla da una veritiera. In un mondo in cui miliardi di persone utilizzano i social network e comunicano online diventano fondamentali le competenze per decodificare ciò che leggiamo o vediamo. Imparare e sviluppare queste capacità è importante sia per gli adulti che per i più giovani: tutti veniamo influenzati da quanto riportano i media, che siano tradizionali (televisione, radio e stampa) o nuovi (comunicazione on-line).

Ma perché nasce una notizia falsa?

Inizialmente le fake news si diffondevano in siti che guadagnavano in base al numero di click che riuscivano ad ottenere. Per suscitare un maggiore interesse di pubblico, utilizzavano la tecnica di pubblicare titoli dai toni esageratamente pomposi e con informazioni spesso fasulle, generando così nei loro siti un flusso di ingenui curiosi. La stessa dinamica avveniva per i troll on-line; nel gergo di internet e in particolare delle comunità virtuali, si tratta di un soggetto che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi. Questi soggetti creavano delle pagine che generavano l’indignazione dei navigatori, caduti nella trappola del troll. Cliccando, insultando, generano traffico e monetizzazione per il possessore del sito che successivamente può rivendere lo spazio cambiando identità al sito. La stessa dinamica avviene nell’epoca dei social media in cui vengono create delle pagine Facebook, Instagram, Twitter contenenti notizie fasulle o troll. Queste pagine traggono vantaggio dal sensazionalismo delle loro notizie e dal flusso costante di persone.

Grisù il cane che ha difeso la sua famiglia da una rapina ad opera di nordafricani sarà abbattuto per ordine del giudice…vero o falso?

La maggior parte dei bambini e degli adolescenti cercano informazioni sui social, quindi dovrebbero imparare a leggere le informazioni in modo critico: è un’abilità da imparare!

Anche i bambini possono cominciare a riflettere su alcuni punti fondamentali di educazione ai media. Sarà compito dell’adulto essere da modello educativo ed aiutare i giovani ad essere pensatori critici rispetto agli input che ricevono dalla rete. Ecco alcune domande che sarebbe utile considerare ogni volta che voi e i vostri bambini incontrate un’informazione o uno spezzone tratto da qualche media:

  • Chi ha fatto questo – video, informazione, gioco, brano…?
  • Chi è il pubblico di riferimento?
  • Chi ha pagato per questo prodotto? Oppure, chi viene pagato se clicco su questa pagina?
  • Chi potrebbe beneficiare o essere danneggiato dal messaggio che viene trasmesso?
  • Cosa non tratta, o viene lasciato fuori da questo messaggio? Potrebbe essere importante?
  • Ti sembra credibile quanto siamo guardando/leggendo/ascoltando? Cosa ti fa pensare?

I ragazzi un po’ più grandicelli potrebbero essere interessati ad imparare alcuni “trucchi del mestiere” per individuare le notizie false. Provate a chiedere loro come riconoscono un’informazione falsa on-line o un sito non affidabile. Potete, per esempio, condividere con loro questi semplici suggerimenti:

  • Nel sito che stai visitando cerca se sono presenti URL o nomi di siti insoliti: spesso appaiono come legittimi siti di notizie, ma non lo sono. Ecco qualche esempio: Gazzette, Corriere del Corsaro, Il Matto quotidiano… (una lista più esaustiva la trovi qui: http://www.bufale.net/home/the-black-list-la-lista-nera-del-web)
  • Cerca segni di scarsa qualità della notizia o dell’articolo come: titoli con refusi o errori grammaticali, affermazioni “forti” senza che siano citate le fonti, immagini sensazionalistiche (donne sexy e immagini molto forti o violente sono popolari sui falsi siti di notizie). Questi sono indizi che devono renderti scettico riguardo alla notizia.
  • Controlla la sezione “Su di noi” di un sito. Scopri chi supporta il sito o chi è associato ad esso. Se queste informazioni non esistono – e se il sito richiede di registrarsi prima di poter imparare qualcosa sui suoi sostenitori – bisogna chiedersi perché non siano trasparenti.
  • Controlla su Google, Wikipedia, Butac, Snopes prima di fidarti o condividere le notizie che sembrano troppo buone (o cattive) per essere vere.
  • Controlla le tue emozioni. Siti di fake news e clickbait cercano le reazioni “estreme” dello spettatore. Se le notizie che stai leggendo ti hanno fatto veramente arrabbiare o sei completamente d’accordo su quanto riportato può essere un segnale che stai cadendo nella trappola del clickbait o del commento impulsivo. Controlla sempre più fonti prima di fidarti.

In questi anni la scuola sta promuovendo diverse azioni educative per lo sviluppo di competenze mediali per gli studenti. Questo è sicuramente un contributo molto importante all’interno di tutta la complessa questione educativa al digitale. Ma lasciato solo può fare molto poco. È importante che noi adulti siamo i primi a mettere in pratica le indicazioni qui sopra riportate per cercare di non essere portatori di una viralità dannosa di informazioni fasulle.

La prevenzione dei femminicidi: cosa deve sapere, saper fare e saper dire un genitore?

A volte tematiche delicate come ‪#‎immigrazione‬, ‪#‎cyberbullismo‬, ‪#‎femminicidio‬ rischiano di diventare nutrimento per demagoghi o formatori improvvisati. Non è certo il caso di Alberto Pellai: “Cambiare un’attitudine culturale, ribaltare uno stereotipo di genere che contamina la cosa più bella della nostra vita (ovvero l’amore) con la cosa più brutta (ovvero la violenza e la morte) è compito e responsabilità di ciascuno di noi.”

La prevenzione dei femminicidi: cosa deve sapere, saper fare e saper dire un genitore?

Questo è un lungo messaggio rivolto alle mamme e ai papà. Ci vuole tempo per leggerlo. E per rifletterci su. Ma spero sia utile a noi genitori. E sia possibile leggerlo anche ai nostri figli, sia ragazzi che ragazze. Penso a questo messaggio da settimane, dopo aver letto le troppe storie di femminicidio che hanno riempito la cronaca nera. Penso davvero che, anche grazie alla mia professione, ai miei libri, alla mia pagina facebook, posso aiutare tutti, me compreso, a riflettere su questo tema. A confrontarsi tra generazioni. Perché le storie dei femminicidi sono tutte orribili, e tutte, purtroppo molto simili. Donne uccise da compagni che, nell’estremo tentativo di non farle andare via da una relazione, le rubano a qualsiasi altra relazione. Le rubano alla vita. C’è un problema enorme nel mondo dei maschi: è l’incapacità di trasformare le emozioni negative in parole che sanno chiedere aiuto, in gesti che rinunciano alla violenza. E’ l’incapacità di tollerare la frustrazione di sentirsi impotenti, all’interno di una comunità di maschi che ti chiede di essere sempre forte e virile. E’ l’incapacità di accettare che si può essere deboli, che ci si può sentire generinadeguati, che si può essere rifiutati. Come genitori abbiamo il dovere di insegnare ai nostri figli maschi a rispettare i “no” che si sentono dire, a comprendere qual è il confine tra negoziazione e prevaricazione, a lavorare sulla propria competenza, che spesso chiede di rinunciare alla dimensione della potenza. La virilità non è un attributo muscolare, non è un’azione violenta, non si afferma con un calcio, uno schiaffo, un pugno, uno spintone. La virilità che serve ai nostri figli è accettazione dei propri limiti, è la capacità di intuire ciò che in una relazione genera una sofferenza irrisolvibile. Tutti i dibattiti su questi temi sono frequentatissimi dalle donne. Ma penso che sarebbe ora che noi genitori accompagnassimo anche i nostri figli maschi a questo genere di incontri. Perché si rendano conto, perché sappiano cosa dire e cosa fare non solo quando sono coinvolti in una relazione di cui non riescono a “tenere le fila”, ma anche quando sentono che i loro amici, i loro colleghi maschi stanno perdendo la “bussola” che permette loro di rimanere orientati. Una delle notizie che ho trovato più sconvolgenti in queste settimane è quella relativa ad un femminicidio occorso circa un mese fa, quello di un uomo che – prima di uccidere la ex moglie – ha inviato decine di sms agli amici e alle persone che sentiva più vicine, scrivendo frasi come: “Deve morire e anche io devo morire. Non voglio andare in galera. L’aspetto in auto, l’accoltello alla gola e poi mi ammazzo”. L’uomo ha scritto numerosi SMS ad altri uomini ricevendone in risposta messaggi del tipo: “smettila di dire cazzate”, “lascia perdere”, “smetti di guardare su internet”, “non ti ucciderai, smetti di dire queste cose”.
Nessuno ha avvertito nelle frasi dell’uomo e nel suo delirio il rischio di vita per la sua ex moglie. Nessuno si è attivato per proteggerla, nessuno ha intuito l’importanza di aiutarla a mettersi in salvo. Penso che se questo genere di messaggi fosse stato scambiato tra donne, l’allarme sarebbe scattato immediatamente e forse la morte di due persone sarebbe stata prevenibile. Ecco, in questo fatto di cronaca nera così terribile, io vedo il silenzio educativo in cui sono lasciati moltissimi maschi. Per questo invito madri e padri a riempirlo questo silenzio educativo. Ad intervenire ogni volta che un figlio, fin da piccolo, usa la forza e le mani per risolvere un conflitto. A criticare ogni forma di violenza venga magnificata nei telefilm o nei videogiochi, di cui moltissimi ragazzi risultano “addicted” e all’interno dei quali le donne sono “bambole” del sesso da catturare e predare al fine di farci sesso, col semplice scopo di aumentare il proprio punteggio (vedi il popolarissimo Grand Theft Auto). C’è da fare. C’è molto da fare.
Parlo di tutto questo e di molto altro ancora nel mio libro “Bulli e pupe. Come i maschi possono cambiare. Come le ragazza possono cambiarli” (Feltrinelli ed.). Dedico un intero capitolo al tema del “rispetto del no” di chi ci sta di fronte. Un tema cruciale per noi maschi. Scrivo ai ragazzi e alle ragazze questo:
Feminicide__c__Eliana_Chauvet“Che cosa ci succede quando in Amore ci troviamo di fronte a una donna che ci dice no? Perché pensiamo che essere amati comporti che la donna al nostro fianco ci debba obbedienza assoluta? Nei femminicidi, il copione è quasi sempre lo stesso: un uomo che si sente dire “No” dalla propria compagna (o perché viene abbandonato, o perché viene tradito, o semplicemente perché è minacciato – all’interno di un conflitto – di essere lasciato) ricorre alla propria forza fisica e la aggredisce, fino a ucciderla, come estremo tentativo di ricondurla all’obbedienza. Perché un uomo non può accettare che una donna gli dica no.
Noi maschi dovremmo allenarci ad ascoltare e rispettare i no delle donne, delle ragazze e delle femmine con cui veniamo a contatto nel nostro percorso di vita. A partire dalle nostre mamme. Che a volte sono così stanche ed estenuate, che di fronte all’ennesima richiesta del loro figlioletto di fare questo o quello provano a dirgli: “Adesso basta, bambino mio. Non ce la faccio proprio più”. E quelle mamme che spesso si sentono in colpa perché provano per cinque minuti a non essere totalmente disponibili verso il loro piccolo cucciolo tiranno, dovrebbero invece sentire che lo stanno aiutando a imparare la fatica e la frustrazione di ascoltare un “no” che ha senso, un “no” col quale lui deve imparare ad empatizzare e sintonizzarsi. Perché più avanti, ci saranno i no di altre ragazze e donne che vorranno stare in relazione con lui, ma non vorranno adeguarsi al copione dell’obbedienza. Un copione che alle donne ha fatto molto male. E che spesso comincia con un “Non essere cattiva” detto ad una bambina che prova a rispondere no ad uno zio che vorrebbe un bacio mentre lei è intenta a leggere un libretto sul suo passeggino.
Noi maschi ne abbiamo davvero tanta di strada da fare in questo senso. E abbiamo bisogno di ragazze che ci aiutino a farla insieme a loro questa strada, che a volte ci sembra troppo complessa. O troppo in salita. Dovremmo imparare a discutere tra di noi, ragazzi e ragazze, ciò che una grande psicologa, Asha Phillips ha scritto a proposito del no, ovvero: “Un no non è necessariamente un rifiuto dell’altro o una prevaricazione, ma può invece dimostrare la fiducia nella sua forza e nelle sue capacità” e ancora “Dire no può essere estremamente liberatorio per entrambi i partner, perché incoraggia le differenze di idee e offre un’occasione di cambiamento”.
Cosa vuole dirci Asha Phillips? Secondo me una sola cosa: ovvero che alcuni no non significano disobbedienza, ma l’esatto contrario. Ovvero rispetto dell’altro. So che tu sei così intelligente da avere un sacro rispetto del mio no. Un no che non dico per offenderti o per rifiutarti, ma per far sì che tu, grazie al mio no, mi rispetti ancora di più. E nel tuo rispetto e col tuo rispetto, il mio no per te diventa un vero e proprio atto d’amore. Verso me stessa. E verso te che chiedi di amarmi.
6946504_1402187Mai pensato che questa frase potrebbe rappresentare la base per una grande storia d’amore? Mai creduto che la vera capacità di amare dipende dalla libertà che i due amati hanno di dirsi reciprocamente dei no?
Forse è da questi “no” pieni di rispetto che una ragazza può riconoscere chi tra noi maschi è un vero uomo. E anche un uomo vero. Nel senso più completo del termine”.

Se siete arrivati fino a qui e condividete il messaggio di questo post allora condividetelo con altri genitori, con altri adolescenti. Se siete docenti, stampatelo, mettetelo da parte e ricominciate il prossimo anno scolastico leggendolo insieme alle vostre classi. Cambiare un’attitudini culturale, ribaltare uno stereotipo di genere che contamina la cosa più bella della nostra vita (ovvero l’amore) con la cosa più brutta (ovvero la violenza e la morte) è compito e responsabilità di ciascuno di noi.

 

postato su Facebook, estratto del suo libro “Bulli e pupe. Come i maschi possono cambiare. Come le ragazze possono cambiarli”, Feltrinelli Ed., 2016

E’ fatto così!

 di Sabina Castelnuovo, pedagogista, formatrice Kaloi e counsellor

 

Scuola dell’infanzia, un giorno come un altro. È il momento dell’uscita, e nel giro di un quarto d’ora mamme, papà, nonne e babysitter si affacciano alla porta dell’aula; i bimbi sono seduti in cerchio, e quando arriva il loro turno si alzano, vanno loro incontro, salutano la maestra, e corrono verso l’uscita.

Oggi però è diverso, dev’essere successo qualcosa: quando entro nell’aula, mia figlia Margherita, col faccino preoccupato, sta guardando la maestra che parla con un suo compagno. Non mi va di interrompere e aspetto. Capisco così che il bambino a cui parla la maestra ha appena tirato un bicchiere (fortunatamente di plastica) in testa a un’altra bambina, che è seduta lì vicino, con gli occhioni pieni di lacrime e un bel segno rosso sulla fronte.

Sergio (nome di fantasia), sembra piuttosto arrabbiato, col visetto imbronciato e lo sguardo rivolto a terra. Si appoggia alla mamma, e da principio mi sembra quasi mortificato. Ma quando la maestra gli fa notare che con il suo gesto, oltre ad aver trasgredito a una regola, ha fatto male alla compagna, e dovrebbe chiederle scusa, alza gli occhi e risponde con voce sicura: “No!”

A questo punto interviene la mamma … ma invece di parlare al figlio, si rivolge alla maestra: “insomma, mio figlio è fatto così, non c’è niente da fare! È tanto buono ma se gli saltano i cinque minuti…”. Poi guarda la bambina e le dice: “Ormai sono tre anni che lo conosci, non hai ancora capito che devi lasciarlo stare?”

Prende suo figlio per mano e se ne va.

Interrompo qui il racconto relativo a quel pomeriggio, vorrei soffermarmi sulla frase “mio figlio è fatto così!” che tante volte ho sentito pronunciare in questi anni, sia durante incontri formativi con gruppi di genitori, che nella mia vita di tutti i giorni, soprattutto sui cancelli delle scuole frequentate dalle mie figlie.

Cosa significa “mio figlio è fatto così!”? Cosa spinge un genitore a pronunciare queste parole? Quali i sentimenti, le intenzioni?

L’origine di questa frase potrebbe essere, e a volte è, un sentimento di profonda accettazione: i genitori devono imparare con il tempo a conoscere e ad accettare il proprio bambino, con i suoi pregi e i suoi difetti, rispettarne carattere e inclinazioni… lo sanno tutti! Su quale manuale non troviamo un’indicazione di questo genere? Giusto e sacrosanto.

Quando un figlio si sente accettato e amato così com’è dai propri genitori, e non perché raggiunge certi risultati, migliora la propria autostima, elemento fondamentale per la crescita. Però a volte si rischia, in nome dell’accettazione, di dare il proprio assenso a comportamenti che con la crescita hanno poco a che vedere.

Innanzitutto perché si fa confusione sul significato da dare alla parola ACCETTAZIONE.

Anche se a volte il confine è molto sottile, accettare, ascoltare, comprendere non significano giustificare. Che è proprio ciò che ha fatto la mamma di Sergio: ha giustificato l’azione del figlio; non la sua fatica a chiedere scusa, non la sua rabbia, ma il suo usare la forza e picchiare gli altri bambini quando “gli saltano i cinque minuti”: io lo accetto così com’è, e anche gli altri lo devono accettare, compreso chi si becca il suo bicchiere in fronte!

La mamma di Sergio non è sola in questa convinzione… ripenso a frasi come:

“Mio figlio guarda la tv tutto il pomeriggio? Sì, fa solo quello, o gioca con i videogiochi, ma sai, purtroppo non ha la passione per la lettura!”

“Lui è fatto così: quando vede una bambina più piccola non resiste: deve correre a tirarle i capelli, anche se non la conosce”

“Un fratellino? No, gliel’abbiamo chiesto ma dice che non lo vuole… peccato! A me e mio marito sarebbe piaciuto, ma non posso certo obbligarlo!”

“Ha voluto assolutamente vestirsi così; lo so che non è adatto a una bambina, ma lei (quattro anni, ndr) non è come sua sorella, ci tiene alla moda”

“La maestra dice che non dovremmo far vedere a Giorgio (tre anni, ndr) tanti combattimenti di Wrestling in TV, perché a scuola lui e i suoi compagni fanno a botte tutto il giorno. Ma cosa ci posso fare se gli piacciono tanto?”

“Ho dovuto mettere la TV in cucina perché senza cartoni mio figlio non mangia; cosa ci vuoi fare, è fatto così: il cibo proprio non gli interessa!”

“Caspita! Tuo figlio si rifà il letto? Che fortuna, la mia no” o  “Tu sei fortunata, perché le tue figlie sono brave”

È davvero solo questione di fortuna? I bambini sono come “gratta e vinci”?

“La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”, dice Tom Hanks-Forrest Gump nel un celebre film.

Seguendo il filo logico (logico?) di questo discorso, potremmo dire lo stesso per i figli: è questione di fortuna, quello che capita capita. L’importante è capire il figlio che ti è “capitato”, e accettarlo così com’è. Giusto? Sì … e no!

“Mio figlio è fatto così!” richiama a “io sono fatto così” che spesso chiude una discussione tra adulti. A me ha sempre dato fastidio quando qualcuno mi ha messo di fronte a questa affermazione, che suona come un ultimatum: prendere o lasciare. Mi ha sempre dato fastidio perché indica la non disponibilità dell’altro a cambiare, a usare del tempo per capire le mie ragioni, a fare un po’ di fatica, anche.

Ecco, la fatica. Penso stia qui il nocciolo del problema.

Educare è un lavoro appassionante ma faticoso, da ricominciare ogni giorno, come quello del contadino, che si reca nei campi tutte le mattine e tutte le mattine deve usare forze, intelligenza, esperienza, competenza, pazienza e cura, insieme alla speranza che il tempo lo aiuti ad ottenere un buon raccolto.

Ma pazienza e fatica non vanno molto di moda ultimamente, soprattutto tra gli adulti: tutto dev’essere “easy”, leggero, veloce, anzi immediato. Non c’è tempo! Neanche per i figli.

Quando un genitore rinuncia ad intervenire in alcune situazioni, più che dal “non ci posso fare niente” dichiarato sembra mosso da un “non ci devo/voglio fare niente”, e quella che viene sbandierata come accettazione sembra più un alibi per il disimpegno: meglio rimbrottare maestra e compagna, incapaci di accettare Sergio e i suoi lanci di bicchiere, che fare la fatica di insegnargli, giorno dopo giorno, a gestire i suoi “cinque minuti che saltano” in modo meno distruttivo.

La mamma di Sergio purtroppo non è l’unica: il disimpegno in educazione oggi sembra molto diffuso, paradossalmente non per ignoranza o mancanza di interesse, anzi. Pensiamo alle pubblicazioni sull’educazione dei figli, dalle riviste, ai manuali, alle trasmissioni televisive o radiofoniche, molto più numerose che in passato. Talmente numerose che a volte i genitori ci si perdono: spesso alla ricerca di ricette e formule magiche là dove a volte basterebbe il buon senso, ricevono moltissime informazioni, ma a volte non sanno come usarle, sono disorientati, nel vero senso della parola: privi di orientamento; e senza un orientamento, una direzione, un senso, anche validissimi principi e atteggiamenti relazionali, come l’ascolto e l’accettazione, vengono fraintesi e usati a sproposito.

A discapito dei bambini.


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