Educare o sopravvivere? Il tempo che dai è la qualità che ricevi

di Fabio Olivieri, pedagogista, counsellor rogersiano, dottorando in teoria e ricerca educativa, Università di Roma Tre

TYP-463111-4788799-genitori“Ci risiamo. Ogni volta la stessa storia!” è il grido funesto di un genitore alle prese con l’ennesima ramanzina. Sembra ci sia un sottile sadismo, da parte dei bambini, nel far rimbalzare come una gomma ogni richiesta avanzata dal mondo adulto. Sono sicuro che molti tra noi sono convinti che i bambini scelgano sempre il momento meno opportuno, ci sfidino, vogliano mettere a dura prova la nostra pazienza.

Eppure tutto questo non è che la somma di intenzionalità presunte, attribuite dai genitori ai propri figli. E dagli educatori ai propri educandi. Pensarli come stati mentali dell’altro ci induce a muoverci e ad agire come fossero reali. Ignoriamo che certi comportamenti appartengono al normale decorso evolutivo, e li trasformiamo in tratti stabili della personalità del bambino, in qualche modo cristallizzandolo all’interno di condotte che saranno poi oggetto di valutazione da parte del mondo e arricchiranno quadri diagnostici sempre più ampi e capaci di includere ogni minima deviazione dagli standard prefissati. La sensazione che ne traiamo è che si cerchi insistentemente una giustificazione coerente e legittima, addirittura scientifica, per non ammettere l’incapacità educativa che come un’epidemia sembra aver infettato il mondo adulto di questo millennio.

Stiamo sostituendo l’anamnesi sanitaria all’autocritica.

TempoNon abbiamo il coraggio di riconoscere i limiti, oggettivi e soggettivi che viviamo in quanto esseri vulnerabili, cui nessuno ha mai insegnato come si educa un altro individuo in carne ed ossa. Non riusciamo ad ammettere che gli spazi di disponibilità da parte del mondo adulto si sono drasticamente ridotti. Che i frammenti di tempo che abbiamo a disposizione non vengono più investiti in  momenti familiari utili a costituire i ricordi infantili dei nostri figli una volta divenuti adulti. Il tempo dell’educare è predato dalle incombenze del vivere e dalla spoglia superficialità del sopravvivere. È vero, c’è il lavoro e l’esigenza di garantire le risorse necessarie alla crescita dei nostri figli. Un tempo produttivo che ormai si espande oltre il terzo della giornata e che ci richiama continuamente alla necessità e alla logica delle emergenze. Queste ultime, sempre più numerose, rischiano di trasformare l’eccezione in ordinarietà. Rischiano di sostituire la pianificazione e la progettualità educativa con formule alla buona, traballanti, derivate dal senso comune o dall’ultimo best seller di Lucia Rizzo (s.o.s. Tata). Ciò che resta da questa sottrazione di senso sembra essere inghiottito dall’universo dell’Entertainment con i suoi inviti rassicuranti, seduttivi, al limite della banalità e riconducibili al trinomio: sesso, morte e denaro.

Abbiamo imparato a pensare i nostri figli con le parole di altri, gli esperti di turno, col risultato che ci resta sempre più difficile coglierne l’eccezionalità. I bambini, per parafrasare Gilardi, autore del libro “Ho un sogno per mio figlio”, diventano esseri “ fatti così!”, nella stupefacente ed imprevedibile lotteria genetica della vita. Avere un figlio educato e responsivo alle regole viene percepito come una provvidenza della dea bendata. “Accettiamo di tutto, purché ce ne diate uno ben educato! ” questa è in fondo la nostra richiesta, più o meno implicita. Il processo educativo non è più qualcosa che si adempie nell’incontro, ma diventa patrimonio individuale del soggetto, che la Natura magari ha beneficiato con un cervello più funzionale e responsivo di un altro. Accettare la dotazione genetica senza alcun contributo diretto da parte nostra significa spostarsi dal vivere al sopravvivere. Se il primo ci interessa e ci impegna con le nostre qualità uniche ed originali, chiedendoci di rinnovarci nell’immanenza del nostro esperire, il sopravvivere, ci seduce con il suo lasciar correre. Perchè in fondo ce lo meritiamo anche, dopo una dura giornata di lavoro!

Ma cosa accade quando le giornate si rincorrono l’una dopo l’altra, senza lasciare spazio alla riflessione consapevole? Ci ritroviamo ad essere vissuti più che a vivere. E i figli, al pari nostro, si adeguano a questo ritmo, nell’infaticabile sforzo di comprendere il mondo e di attribuirgli una certa coerenza, malgrado siano orfani di significati.  Accettiamo  il nostro essere al mondo come qualcosa di scontato, che segue i binari che qualcuno ha tracciato secoli prima per noi, oppure decidiamo di affidarci alla corrente del momento, quella più in auge.

In questo clima di deriva totale i bambini tentano di recuperare il nucleo significativo e pulsante del loro divenire originario. Leggono la ricchezza che gli si prospetta innanzi e non riescono ad associarla in alcun modo all’inedia apatica che vedono riflessa nel mondo adulto. Un mondo adulto che ha deciso di sottrarsi all’impegno familiare che dovrebbe costruirsi ancor prima di dare alla luce I figli. Un proposito che dovrebbe vivere quotidianamente nella capacità di essere, prima tra coniugi, rinforzo, conforto, cura e attenzione. Educare non è delegare alla scuola, né all’uomo nero di turno. Richiede un tempo dedicato. Educare è prima di tutto un esserci-nella-relazione. Imparare a nutrirla dall’interno. E’ un atto di responsabilità che coinvolge due o più soggettività che, incontrandosi nella loro intima essenza dialogante, cedono e guadagnano qualcosa in più. Perché al di fuori delle tecniche, delle scienze, degli strumenti, delle competenze, quel che resta è il volto umano in cui ci siamo imbattuti. Mentre le parole sfumano, come ci ricorda il sociologo francese Edgar Morin, il loro contributo nell’aver aperto nuovi canali di senso resta eternamente ancorato in noi. Ci supporta nelle nostre evoluzioni temporali, ricordandoci che l’umano necessita di umanità per poter vivere al mondo come tale.

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E allora, come fare se il tempo che ci resta è soltanto una parentesi di inattività? Indubbiamente è necessario lavorare dapprima su questo. Su quali siano realmente i nostri obiettivi di crescita e di traguardo nella maturità. Non sempre la famiglia vi trova spazio. Ma è fondamentale dircelo, quando questo accade, perché mettere al mondo nostri simili non è un obbligo, ma un atto libero e volontario. Una scelta che non si ripercuote soltanto su di noi, ma sull’umanità.

L’educazione infatti, proprio perché dialogico-relazionale non è mai una questione privata, è sempre pubblica e sociale. Come amo ricordare ai genitori che incontro: “Il rompiballe che la mattina al bancone del bar occupa tutto lo spazio mentre shakera col gomito il tuo cappuccino… è sempre FIGLIO di qualcuno!”.

Posta questa prima e necessaria condizione, sarà allora possibile guardare oltre. Comprendere che un essere umano è qualcosa di più che una semplice pianta grassa cui dare dell’acqua di tanto in tanto. La conoscenza della complessità del nostro sistema biologico e nervoso dovrebbe, a mio avviso, costituire la prima regola aurea di ogni intervento educativo, professionale e non. A nessuno verrebbe in mente di mettere le mani sul motore della propria auto senza possedere competenze di meccanica! Allo stesso modo, non possiamo pretendere di accompagnare lo sviluppo dei nostri bambini ignorando la loro (e la nostra!) biologia essenziale. Ritengo sia un atto di profonda ingiustizia togliere agli uomini o alle donne di domani la possibilità di desiderare di essere pienamente se stessi, per dirla con Rogers, e di contribuire positivamente al destino del mondo con i loro pensieri, sentimenti, intuizioni e invenzioni. La vita ha necessità di rinnovarsi continuamente per non cedere alla sopravvivenza. E noi adulti, genitori ed educatori, abbiamo il dovere morale di fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità per favorire il compimento di un tale processo. Necessitiamo allora di una preparazione adeguata a livello di competenze biologiche e relazionali. Perché le stesse dovremmo renderle oggetto di apprendimento per i nostri figli. Frequentare un percorso di crescita a livello individuale e di coppia, ancor prima che familiare. La preparazione alla genitorialità e alla vita sentimentale dovrebbe essere garantita come diritto/dovere da ogni municipalità pubblica e non restare appannaggio del solo ambiente religioso. Abbiamo bisogno di rifondare il modo in cui stare in famiglia e nel mondo. Occorre promuovere una socialità generativa, solidale e vitale e per farlo dovremmo ripartire daccapo, dall’origine e dalla conoscenza della materia che ci rende umani, per poi arrivare a comprendere il modo in cui funzioniamo ed infine proporci in qualità di figure capaci di costruire un futuro dignitoso per i nostri figli. Dove il tempo non sia più una margherita da sfogliare (ce l’ho/non ce l’ho) ma l’intento esplicito di voler testimoniare, attraverso la relazione, la ricchezza esistenziale dell’altro, che mi completa e mi significa come adulto del genere umano.

Per approfondire le tematiche introdotte dall’autore, consigliamo la lettura del suo libro recentemente pubblicato “EDUCAZIONE E NEUROBIOLOGIA. Cervello, empatia e processi morali”, edito da Aracne editrice.

copertina libro Olivieri clicca sull’immagine per saperne di più…

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