E’ fatto così!

 di Sabina Castelnuovo, pedagogista, formatrice Kaloi e counsellor

 

Scuola dell’infanzia, un giorno come un altro. È il momento dell’uscita, e nel giro di un quarto d’ora mamme, papà, nonne e babysitter si affacciano alla porta dell’aula; i bimbi sono seduti in cerchio, e quando arriva il loro turno si alzano, vanno loro incontro, salutano la maestra, e corrono verso l’uscita.

Oggi però è diverso, dev’essere successo qualcosa: quando entro nell’aula, mia figlia Margherita, col faccino preoccupato, sta guardando la maestra che parla con un suo compagno. Non mi va di interrompere e aspetto. Capisco così che il bambino a cui parla la maestra ha appena tirato un bicchiere (fortunatamente di plastica) in testa a un’altra bambina, che è seduta lì vicino, con gli occhioni pieni di lacrime e un bel segno rosso sulla fronte.

Sergio (nome di fantasia), sembra piuttosto arrabbiato, col visetto imbronciato e lo sguardo rivolto a terra. Si appoggia alla mamma, e da principio mi sembra quasi mortificato. Ma quando la maestra gli fa notare che con il suo gesto, oltre ad aver trasgredito a una regola, ha fatto male alla compagna, e dovrebbe chiederle scusa, alza gli occhi e risponde con voce sicura: “No!”

A questo punto interviene la mamma … ma invece di parlare al figlio, si rivolge alla maestra: “insomma, mio figlio è fatto così, non c’è niente da fare! È tanto buono ma se gli saltano i cinque minuti…”. Poi guarda la bambina e le dice: “Ormai sono tre anni che lo conosci, non hai ancora capito che devi lasciarlo stare?”

Prende suo figlio per mano e se ne va.

Interrompo qui il racconto relativo a quel pomeriggio, vorrei soffermarmi sulla frase “mio figlio è fatto così!” che tante volte ho sentito pronunciare in questi anni, sia durante incontri formativi con gruppi di genitori, che nella mia vita di tutti i giorni, soprattutto sui cancelli delle scuole frequentate dalle mie figlie.

Cosa significa “mio figlio è fatto così!”? Cosa spinge un genitore a pronunciare queste parole? Quali i sentimenti, le intenzioni?

L’origine di questa frase potrebbe essere, e a volte è, un sentimento di profonda accettazione: i genitori devono imparare con il tempo a conoscere e ad accettare il proprio bambino, con i suoi pregi e i suoi difetti, rispettarne carattere e inclinazioni… lo sanno tutti! Su quale manuale non troviamo un’indicazione di questo genere? Giusto e sacrosanto.

Quando un figlio si sente accettato e amato così com’è dai propri genitori, e non perché raggiunge certi risultati, migliora la propria autostima, elemento fondamentale per la crescita. Però a volte si rischia, in nome dell’accettazione, di dare il proprio assenso a comportamenti che con la crescita hanno poco a che vedere.

Innanzitutto perché si fa confusione sul significato da dare alla parola ACCETTAZIONE.

Anche se a volte il confine è molto sottile, accettare, ascoltare, comprendere non significano giustificare. Che è proprio ciò che ha fatto la mamma di Sergio: ha giustificato l’azione del figlio; non la sua fatica a chiedere scusa, non la sua rabbia, ma il suo usare la forza e picchiare gli altri bambini quando “gli saltano i cinque minuti”: io lo accetto così com’è, e anche gli altri lo devono accettare, compreso chi si becca il suo bicchiere in fronte!

La mamma di Sergio non è sola in questa convinzione… ripenso a frasi come:

“Mio figlio guarda la tv tutto il pomeriggio? Sì, fa solo quello, o gioca con i videogiochi, ma sai, purtroppo non ha la passione per la lettura!”

“Lui è fatto così: quando vede una bambina più piccola non resiste: deve correre a tirarle i capelli, anche se non la conosce”

“Un fratellino? No, gliel’abbiamo chiesto ma dice che non lo vuole… peccato! A me e mio marito sarebbe piaciuto, ma non posso certo obbligarlo!”

“Ha voluto assolutamente vestirsi così; lo so che non è adatto a una bambina, ma lei (quattro anni, ndr) non è come sua sorella, ci tiene alla moda”

“La maestra dice che non dovremmo far vedere a Giorgio (tre anni, ndr) tanti combattimenti di Wrestling in TV, perché a scuola lui e i suoi compagni fanno a botte tutto il giorno. Ma cosa ci posso fare se gli piacciono tanto?”

“Ho dovuto mettere la TV in cucina perché senza cartoni mio figlio non mangia; cosa ci vuoi fare, è fatto così: il cibo proprio non gli interessa!”

“Caspita! Tuo figlio si rifà il letto? Che fortuna, la mia no” o  “Tu sei fortunata, perché le tue figlie sono brave”

È davvero solo questione di fortuna? I bambini sono come “gratta e vinci”?

“La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”, dice Tom Hanks-Forrest Gump nel un celebre film.

Seguendo il filo logico (logico?) di questo discorso, potremmo dire lo stesso per i figli: è questione di fortuna, quello che capita capita. L’importante è capire il figlio che ti è “capitato”, e accettarlo così com’è. Giusto? Sì … e no!

“Mio figlio è fatto così!” richiama a “io sono fatto così” che spesso chiude una discussione tra adulti. A me ha sempre dato fastidio quando qualcuno mi ha messo di fronte a questa affermazione, che suona come un ultimatum: prendere o lasciare. Mi ha sempre dato fastidio perché indica la non disponibilità dell’altro a cambiare, a usare del tempo per capire le mie ragioni, a fare un po’ di fatica, anche.

Ecco, la fatica. Penso stia qui il nocciolo del problema.

Educare è un lavoro appassionante ma faticoso, da ricominciare ogni giorno, come quello del contadino, che si reca nei campi tutte le mattine e tutte le mattine deve usare forze, intelligenza, esperienza, competenza, pazienza e cura, insieme alla speranza che il tempo lo aiuti ad ottenere un buon raccolto.

Ma pazienza e fatica non vanno molto di moda ultimamente, soprattutto tra gli adulti: tutto dev’essere “easy”, leggero, veloce, anzi immediato. Non c’è tempo! Neanche per i figli.

Quando un genitore rinuncia ad intervenire in alcune situazioni, più che dal “non ci posso fare niente” dichiarato sembra mosso da un “non ci devo/voglio fare niente”, e quella che viene sbandierata come accettazione sembra più un alibi per il disimpegno: meglio rimbrottare maestra e compagna, incapaci di accettare Sergio e i suoi lanci di bicchiere, che fare la fatica di insegnargli, giorno dopo giorno, a gestire i suoi “cinque minuti che saltano” in modo meno distruttivo.

La mamma di Sergio purtroppo non è l’unica: il disimpegno in educazione oggi sembra molto diffuso, paradossalmente non per ignoranza o mancanza di interesse, anzi. Pensiamo alle pubblicazioni sull’educazione dei figli, dalle riviste, ai manuali, alle trasmissioni televisive o radiofoniche, molto più numerose che in passato. Talmente numerose che a volte i genitori ci si perdono: spesso alla ricerca di ricette e formule magiche là dove a volte basterebbe il buon senso, ricevono moltissime informazioni, ma a volte non sanno come usarle, sono disorientati, nel vero senso della parola: privi di orientamento; e senza un orientamento, una direzione, un senso, anche validissimi principi e atteggiamenti relazionali, come l’ascolto e l’accettazione, vengono fraintesi e usati a sproposito.

A discapito dei bambini.


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