Rigore e dialogo coi giovani, croce e delizia

di Fulvio Baralis, counsellor professionista e formatore Kaloi

Sto iniziando la mia prima lezione in uno dei tanti corsi che svolgo da anni con i lavoratori apprendisti, giovani tra i 18 e i 30 anni. Biologicamente adulti, non sempre nei comportamenti. Quello che ho davanti è un gruppo con bassa scolarità, licenza media; la maggior parte di loro lavora in imprese artigianali: impiantistica elettrica civile e industriale, termoidraulica, installazione dei serramenti ecc.

Oggi è il loro primo giorno d’aula. Un responsabile dell’Agenzia Formativa ha illustrato loro la Legge che regola l’apprendistato, un contratto che prevede l’obbligo – per il datore di lavoro –  di garantire la formazione necessaria ad acquisire (o riqualificare) una professionalità.  I partecipanti sono stati informati sugli orari e le regole di partecipazione al corso.

Ho iniziato la lezione da circa venti minuti quando scorgo nella penultima fila un ragazzo che, mi pare, dorme con la testa appoggiata sul banco. E’ Antonio. Mi avvicino. Qualche compagno sorride. Decido di soprassedere, di aspettare. Redarguirlo potrebbe rompere il clima di attenzione che sono riuscito a suscitare nel gruppo, innescare polemiche e discussioni. I ragazzi di quell’età si mostrano spesso solidali tra loro, fanno squadra a prescindere. Sono poco inclini a rispettare le regole e a riconoscerne la necessità in contesti istituzionali. Sono giovani che hanno alle spalle una storia scolastica difficile e infelice, di bocciature e drop-out (abbandono degli studi).  Mal sopportano le lezioni teoriche e il dover stare seduti e fermi per tante ore.

Passano dieci minuti. Qualcuno si accorge della situazione, guarda il compagno appisolato poi me, come a  scrutare la mia reazione.  Altri sorridono tra loro con aria compiaciuta e beffarda. Approfitto della chiusura di un argomento per intervenire.

“Che fai, dormi?” domando, a due passi da lui. Non si muove ed è una risposta. Il compagno di banco gli dà una vigorosa gomitata e il ragazzo si ricompone stropicciandosi gli occhi.

“Che fai, dormi?” ripeto.

Mi fissa in silenzio, guarda i suoi compagni, sorride e risponde con voce fiacca “Perché? Non si può?”.  Strappa la risata al gruppo, ne è molto soddisfatto.

Segue un dialogo che mette a dura prova la mia pazienza.  Ad ogni tentativo di definire criteri minimi di presenza ad una lezione, Antonio risponde con frasi paradossali: “E cosa dovrei fare?”, “Boh, per quello che mi interessa!”, “Ma per lei cosa cambia se io dormo o meno?”, “Ma che gliene frega a lei?”, “Si legga il giornale, tanto la pagano lo stesso!”.

Resto in questo scambio, tenendo il punto senza alterarmi. Il mio tono di voce, fermo e deciso, rimane comunque molto garbato. D’altronde le sue posizioni e i suoi modi sono assolutamente inaccettabili e stanno pregiudicando il tempo della lezione.

Lo avverto che potrei vedermi costretto a segnalare il suo comportamento ai responsabili del corso e al suo datore di lavoro.  Antonio fa spallucce: “E chi se ne frega! Tanto il titolare è mio zio. A lui non gliene importa niente se io dormo. È lui il primo a dire che tanto qui non si viene a fare nulla!”

Chissà se è vero (povero mondo adulto!).  Oltre a rapidi pensieri sulla realtà educativa e il destino di alcuni “figli / nipoti di…”, mi pongo domande fugaci sulla costruzione della motivazione  nei contratti di apprendistato; su quanto le aziende credano all’opportunità formativa. La vivono come una scocciatura necessaria?

Non c’è tempo per queste riflessioni, non è il contesto in cui affrontarle. Scelgo di chiudere il discorso definendo i limiti della mia disponibilità e dell’ambito formativo che stiamo condividendo.  Mi rivolgo a lui con pacata fermezza, definitiva:
“Antonio, io non ho voglia di discutere con te o con altri dell’ABC dell’Apprendistato, del perché esiste, del perché è previsto un giorno di formazione alla settimana per cinque settimane, delle sue regole o della necessità della buona educazione. Ti ripeto per l’ultima volta che tu, come tutti, sei tenuto a tenere un atteggiamento adeguato al contesto in cui ci troviamo. Punto. Non aggiungerò più altro in merito.”

Antonio apre lentamente le spalle, si appoggia allo schienale e tace. Riprendo la lezione, non senza difficoltà. Alcuni allievi interagiscono proficuamente suscitando, a poco a poco, l’interesse di altri compagni; ogni tanto interviene anche Antonio. E così farà nei successivi incontri, anche se la disciplina non è mai stata il suo forte. Il percorso è proseguito così, alternando coinvolgimento, dialogo, fermezza, richiami quando necessario.  Ed è arrivata l’ultima lezione.

La settimana successiva Antonio è in cortile, in compagnia di altri corsisti. Mi saluta cordialmente, mi avvicina.  “Professore, lo prende un caffè?”

“Volevo scusarmi con lei”, mi dice. “Il corso non mi piace, è proprio inutile, però ci tenevo a dirle che l’ho molto apprezzata. Lei non è come gli altri, non mi ha mai mancato di rispetto, anche quando mi ha sgridato”.

Le sue parole mi hanno riempito di stupore e soddisfazione. Emozioni che proprio gli allievi più impegnativi riescono a dare. Rigore e dialogo possono coesistere e, quando coesistono, portano buoni frutti. Il rispetto delle regole è necessario e va affermato con fermezza ma il tempo e la fatica (perché a volte è proprio una fatica) investiti nel dialogo rispettoso fanno la differenza.

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