La bicicletta gialla

di Massimo Caccin, formatore Kaloi e counsellor

Era una sera dei primi giorni di marzo ed ero in compagnia di un gruppo di genitori per approfondire la tematica delle regole e le modalità più efficaci per trasmetterle ai figli. Decisi di narrare un episodio della mia vita…

La finalità era quella di stimolare il pensiero sul fatto che la narrazione di sé sincera, profonda, partecipata e vissuta è un’opportunità coinvolgente per la trasmissione di valori e regole di vita. Quello che era nato come spunto formativo divenne un’esperienza sorprendente.

Feci avvicinare i genitori, erano gomito a gomito in un semicerchio che mi comprendeva. Occhi fissi su di me, silenzio nella stanza. La curiosità era palpabile, l’attenzione mista a stupore. Il cuore iniziò a battermi più forte. Ne rimasi stupito, ero abituato a parlare in pubblico. Controllai con sufficiente disinvoltura questa reazione e iniziai il racconto.

Un giorno come tanti, nel tardo pomeriggio, sono andato a prendere Matteo (il più piccolo dei tre) alla fine dell’allenamento di atletica. Tornando, poco lontano da casa, notiamo una persona – straniera, mi sembra – con la bicicletta per mano, la ruota davanti bucata. Gesticola, impreca, prega, chi lo sa? Mi colpisce il suo volto sconfortato e chiedo a Matteo: “Vuoi che andiamo a vedere se ha bisogno di una mano?”. Matteo dice sì, convinto. Avrei potuto caricare la bicicletta in macchina e portare a casa entrambi. Lo raggiungiamo e gli chiedo se ha bisogno di aiuto. Lì per lì risponde no, ringraziando. In un paio di chilometri sarebbe arrivato a casa. Di chilometri ne aveva già fatti quindici e tutti a piedi. Era uscito dalla fabbrica dove lavorava saltuariamente e aveva trovato la ruota a terra, nessuno si era offerto di accompagnarlo a casa e si era avviato a piedi. Camminava da due ore.

Chissà quanti pensieri in quelle due ore, in quei quindici chilometri a piedi tirando una bicicletta con la gomma a terra. Forse io nelle sue condizioni avrei pure pianto, chissà lui? Parlando mi chiede se avevo una bicicletta da prestargli per andare al lavoro il giorno dopo. A lui non succedeva spesso di lavorare due giorni di fila. La sua bicicletta era davvero un catorcio. Con una gomma bucata. Ormai stava facendo buio, non c’era tempo di ripararla per l’indomani. Mi meraviglio un po’ a quella richiesta, come fossimo vecchi amici.  Penso che il bisogno, quello vero, dà il coraggio di tentarle tutte. Con forte accento straniero aggiunge “Ti do il mio numero di cellulare… se trovi una bicicletta, per favore, chiamami, ti prego”.

Voleva anche avere il mio numero ma istintivamente l’ho negato. Istinto, paura? Quella maledetta paura che porta a diffidare del tuo simile solo perché ha una pelle diversa, parla male l’italiano o perché puzza di sudore dopo una giornata di lavoro in fabbrica. La paura di essere rintracciato o subire altre richieste di aiuto. La paura di sentire la pressione sulla coscienza. Lui può fidarsi di me, ci mancherebbe!, io meglio che sia prudente. Ho segnato il suo numero di cellulare. Non poteva chiamarsi Toni ma ho accettato questo nome. Toni è andato per la sua strada e noi per la nostra. Nel breve tratto per arrivare a casa, avvolto in tante riflessioni, il pensiero è andato alla bicicletta gialla che avevo regalato a mia moglie nel 1986, quando eravamo fidanzati. Quella bicicletta è stata il mio anello di fidanzamento. Avevo fatto debito, in quegli anni di Servizio Civile a duemila lire al giorno che non erano molte e dovevano bastare. Ricordo ancora gli occhi luccicanti di Cecilia, quella sera, quando le ho portato (e ne andavo fiero) la bicicletta gialla: il mio anello di fidanzamento! Lei sapeva del valore simbolico di quel dono e ne fu commossa.

Quanti pensieri in quei cinque minuti in macchina: la prendo, la carico, gliela do… Però, un attimo… cosa penserà Cecilia? in fondo è sua e non mia, dovrebbe decidere lei se darla o non darla ma se glielo chiedo sarà libera di dire no? d’altronde Toni è a piedi e ogni giorno fa trenta chilometri per lavorare…

Arrivato a casa chiamo mia moglie dal cortile.  Frettolosamente le spiego l’accaduto. Io sotto, ancora vicino alla macchina accesa e lei sopra, al terrazzo. Bisognava fare presto perché altrimenti avrei potuto non ritrovarlo nei meandri dei condomini ormai abitati solo da stranieri. Cecilia risponde che se va bene a me, lei è d’accordo. Ho abbassato i sedili, caricato la bici, sono corso verso Borgoricco senza pensare ai limiti di velocità e ho trovato Toni che stava entrando nel porticato di un palazzo anonimo. Ho suonato il clacson, s’è girato e mi ha sorriso. Che sorriso! Mi si è aperto il cuore. Aveva capito, sicuramente aveva sperato! Con la stessa bicicletta una seconda sorpresa, un secondo sorriso commosso, a distanza di anni e per motivi diversi. Non sono riuscito a contare quanti grazie nei primi secondi. Davanti a quella bici di 24 anni ma perfetta, Toni ha esclamato con occhi umidi “Questa bicicletta è proprio bella quanto te!”. Ha insistito per avere il mio numero di telefono, per offrirmi almeno un caffè. 

Di nuovo quella paura che blocca, ho declinato, ci saremo sicuramente trovati, abitando nello stesso comune. Siamo solo 8.000 anime, che ci vuole ad incontrarsi! Non è più successo.

Gli ho raccomandato di averne cura, di gonfiare le ruote, il fanale funzionava e la sella imbottita era nuova. Almeno non si sarebbe ammaccato il posteriore durante il chilometraggio quotidiano. Mi ha stretto la mano due volte, gli ho augurato buona fortuna e ci siamo lasciati. Ho saputo che è siriano. Toni è il nome per le conoscenze comuni in Italia. Molti stranieri si presentano con un nome semplice da ricordare.  Gli amici lo chiamano Abramo, il suo vero nome non l’ho mai saputo. Oggi, appena tornata da scuola, mia figlia Anna ha detto che stamattina alle sette una bicicletta gialla sfrecciava per la strada principale, tanto che non si vedevano i pedali. Ha provato a seguirla ma non è riuscita a raggiungerla. Di una cosa era certa, era la bici della mamma! Il suo pensiero andò subito a Toni e alla bicicletta gialla che dona il sorriso.

Avete presente la magia di un evento? Quella sensazione di essere in una realtà parallela, come se il tempo fosse sospeso? Ecco, in quella stanza, circondato da genitori, in poco tempo mi sono sentito avvolgere da questa intensa sensazione. La sorpresa più grande fu che a metà racconto dovetti fermarmi. Alcune parole pronunciate con un po’ più di passione e sentimento mi smorzarono la voce e mi gonfiarono gli occhi che si bagnarono di lacrime inaspettate. Un giro di sguardo e vidi che anche gli occhi delle persone di fronte a me erano lucidi e nessuno osava dire una parola. Sembrava che un filo invisibile collegasse tutti i cuori formando una rete comunicativa palpitante. C’era partecipazione e comprensione, calore e unione. Un’occasione formativa divenne un’esperienza umana molto profonda. Intendevo dare e far apprendere. Ho ricevuto e appreso. Negli incontri successivi il gruppo sembrava diverso, più unito, disinvolto, aperto. La magia della narrazione di sé non finirà mai di sorprendermi.

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